martedì 19 febbraio 2013

Lavoratrici di tombolo oggi

LAVORATRICI DI TOMBOLO OGGI Il tombolo è un’antica arte diffusa in tutte le regioni d’Italia ed indica un particolare merletto usato un tempo per ornare corredi liturgici o biancheria per la casa . Oggi le lavoratrici di tombolo hanno cambiato genere e preferiscono usare la fantasia per creare oggetti e piccoli arredi che rispondono meglio al loro estro creativo. Come si lavora il tombolo? Si ...utilizza un cilindro (detto appunto tombolo) imbottito con del crine e rivestito con stoffa verde, sul quale si appunta un disegno su apposito cartone forato. Ci si serve quindi di particolari bastoncini detti fuselli. Si tratta di bastoncini torniti che hanno la forma molto simile a un fuso, con una estremita' munita di capocchia sulla quale si ferma il filo. Ne occorrono sempre un numero pari perche' per qualsiasi punto se ne intrecciano quattro per volta. Altro elemento occorrente sono gli spilli che un tempo erano in argento, oggi sono in ottone nichelato e la loro lunghezza non deve mai superare i 2 cm., ma possono anche essere piu' corti per lavori sottili. Il filo e' l'elemento piu' importante per la perfetta riuscita di un lavoro. Originariamente si usava lino sottile, poi si e' diffuso l'uso della seta, del cotone, dei fili laminati. Oggi abbiamo un ottimo filo di cotone che da' ottimi risultati. Infine per ogni pizzo che si intende eseguire occorre un disegno ben preciso su apposito cartone forato. Si possono trovare gia' pronti in commercio, ma e' possibile farseli da sole, se si possiede, oltre a una predisposizione per il disegno, una particolare pratica di lavoro. Nella nostra città ci sono esperte lavoratrici di tombolo. Con maestria, originalità e fantasia riescono a creare bellissimi merletti di varie fogge e dimensioni. In occasione del Natale, sono riuscite ad adattare i preziosi merletti agli ambienti ed ai personaggi tipici del presepe, creando effetti scenici sorprendentemente fantastici. Hanno anche pensato alle decorazioni per l’albero di Natale introducendo figurine preziose di merletto in trasparenti palle di plexiglas. Fiori e frutta di vari colori, alberelli , animali , sono creazioni in cui le lavoratrici riescono a trasferire estro e fantasia. Dalle bomboniere alle acconciature , dai pizzi per le tende alle rifiniture per biancheria preziosa, servendosi anche di materiali riciclati , le nostre instancabili lavoratrici creano e producono giornalmente piccole cose destinate a rimanere nel tempo. Si tratta di un’arte antica che vale la pena di continuare ed è questo l’appello che le esperte lavoratrici vorrebbero fare alle giovani ricordando che il loro laboratorio è aperto a tutte le ragazze che vogliono imparare l’affascinante lavorazione del tombolo.

martedì 22 gennaio 2013

la casa

Come vivevano i nostri concittadini? Che tipo di case abitavano? I pescatori che negli anni cinquanta vivevano ancora in gran parte nel centro storico erano molto poveri, come ci racconta un corsista. La mia casa era al primo piano nella piazzetta di San Francesco e mio padre, che faceva il calzolaio, lu scarparu, aveva la sua bottega nel pianoterra della casa. Da una finestra avevo modo di osservare la vita di alcune famiglie di pescatori che vivevano all’interno di un cortile, proprio di fronte alla chiesa di San Francesco. E’ strano per noi pensare che una famiglia potesse adattarsi a vivere in una sola stanza, ma allora la gente era abituata a vivere in modo molto precario e accettava le scomodità con rassegnazione. Una latrina scoperta e un pozzo con accanto la pila erano utilizzati dagli abitanti del piccolo cortile ; le loro abitazioni erano molto piccole, addirittura con una sola stanza . Lì si svolgeva la vita quotidiana e si trovava tutto quello che poteva servire all’intera famiglia. Di solito, dietro la porta, posto su un tavolino, c’era il fornello a petrolio, primus; pentole e attrezzi da cucina erano conservati in una cassa di legno. Di fronte a questo improvvisato angolo di cottura era piazzato il letto matrimoniale che, a volte, era riparato da una tenda. Il letto era fatto con tavole poggiate su due o quattro cavalletti di ferro, detti trispi. Una corda stesa in un angolo della stanza serviva per appendere i vestiti, mentre in un altro angolo era sistemata la naca, una culla sospesa sul letto matrimoniale con una corda più sottile e penzolante che consentiva alla madre di cullare comodamente il neonato. Genitori e figli dormivano tutti nello stesso letto, soprattutto quando il padre andava a pescare la notte; quando il pescatore non andava a lavorare, si ricavavano altri letti in modo molto semplice, mettendo insieme sedie e tavole di legno. Nell’unica stanza abitata si poteva anche ricavare un soppalco da raggiungere con una scaletta di legno dove fare dormire i maschietti. In questo tipo di case mancava completamente il gabinetto e la donna di casa s’industriava a svuotare i recipienti, rinali, nella latrina comune del cortile. Davanti al pozzo e alla pila per lavare, comuni a più famiglie ,le donne a volte litigavano e si rompevano le quartare sulla testa.(ANGELO VERDE)

domenica 20 gennaio 2013

TRACCE D'ANTICO

Ma che cosa è una vita se non ce la raccontiamo?" La sala in cui avvengono gli incontri degli iscritti all’Università della terza età è stracolma di gente. Sono donne e uomini sorridenti e disposti all’ascolto, desiderosi di trascorrere parte del pomeriggio in buona compagnia, staccandosi magari dalla televisione, arbitra incontrastata delle nostre vite. E’ quasi tutta gente che conosco; ci incontriamo spesso nelle strade della città, un saluto, un sorriso e ciascuno nel suo mondo. Oggi però il Preside mi chiede di parlare agli studenti della mia personale proposta di lavoro, qualcosa che da semplici ascoltatori possa trasformarli in attivi e capaci ricercatori . Ho già preso i miei appunti e, per rompere il ghiaccio, leggo le tecniche che riguardano la scrittura e l’ispirazione creativa, parlo di una ricerca che si potrebbe realizzare dopo aver definito le coordinate di tempo e spazio e scelto la terminologia da adottare, l’uso delle parole, di proverbi, filastrocche, di espressioni tipiche o di fotografie che potrebbero arricchire la trama narrativa di un lavoro da realizzare insieme. L’uditorio mi sembra indifferente e ancora non motivato. Ripeto che due sono le coordinate importanti: lo spazio e il tempo. Quale spazio? Quello della nostra città, i luoghi in cui ci siamo mossi da bambini e adolescenti. Il tempo? È quello della ricostruzione postbellica, gli anni della speranza e del cambiamento. In quel periodo la nostra città cambia aspetto, si svecchia, cerca di mettersi alla pari di altre città più emancipate grazie anche agli elettrodomestici che entrano nelle nostre case come il frigorifero, la lavatrice e la televisione, oggetti a cui abbiamo fatto presto ad abituarci, così come oggi ci siamo rapidamente abituati all’uso del telefonino e del computer. Esposto il mio progetto, un brusio sempre più intenso si avverte nella sala. C’è chi chiede di intervenire, chi esterna le sue riflessioni al vicino, chi comincia a scuotere la testa sotto il peso dei ricordi. La nostra città, Mazara, e gli anni della giovinezza da rivisitare hanno colpito nel segno. Bene, dico fra me e me, l’uditorio si è mosso. La valanga delle memorie si sta precipitando nella sala, l’aria diventa densa, pesante; ognuno di noi ha creato la sua nuvoletta gravida di vita passata e cerca di scaricarla su chi gli sta accanto. Fisseremo dei punti da cui partire, dico allora nel tentativo di bloccare il crescente brusio, la prossima volta osserveremo la cartina della città e individueremo le abitazioni, la tipologia delle case del centro storico e dell’immediata periferia, i vicoli, i cortili, le strade, le attività artigianali, le botteghe, i luoghi insomma della nostra vita. Ci salutiamo con ampi sorrisi. I corsisti hanno una gran voglia di raccontare ed io avverto in me il giusto entusiasmo per predispormi all’ascolto.

venerdì 4 gennaio 2013

Salvatore, il mazarese.

Ritornando a casa, aveva percorso la strada sorridendo. Tutto gli sembrava bello, ogni cosa sembrava avere un fascino misterioso, nuovo, mai avvertito. Da dove gli veniva quella voglia di camminare con testa alta e sguardo fiero ? e la voglia di lasciar andare le cose spiacevoli per fermarsi ad osservare solo il lato bello della vita? Era da poco che aveva mutato la sua visione del mondo. Luigi, il suo amico sognatore gli aveva fatto scoprire un aspetto diverso della vita. A che serve, gli aveva detto, lamentarsi di continuo e dire che non c’è niente che funziona nel tuo paese, nella tua nazione, nel mondo? Fermarsi a vedere solo il lato negativo delle cose porta inevitabilmente a determinarne la loro continuazione. Il mondo, in fondo, non è altro che la proiezione della nostra coscienza. Se esiste la guerra è perché noi uomini siamo d’accordo che ci sia la guerra e la nostra coscienza non vi si oppone. Se esiste il commercio delle armi è perché noi abbiamo accettato che vi sia. Se vi è distruzione dell’ecosistema è perché noi lo abbiamo accettato. Il mondo intorno a noi non è altro che il nostro accordo collettivo. La nostra storia, ossia la storia che noi ci raccontiamo come individui e come collettività, è direttamente in relazione alle nostre intime intenzioni. Salvatore all’inizio si era ribellato aspramente e contestato le affermazioni dell’amico. Ma che mi vieni a raccontare? Io sarei responsabile di tutte le porcherie che combinano gli altri? Sono una persona corretta io e ho sempre avuto le mie idee . Piuttosto dobbiamo dire che ci è toccato di vivere in un mondo sbagliato. Un mondo dove la gente pensa solo al proprio tornaconto, non rispetta i suoi simili e non ha il minimo rispetto per l’ambiente in cui vivranno le generazioni future. Va bene, gli diceva Luigi, occorrerebbe un grosso cambiamento. Ma da dove partire per cambiare il mondo? Da noi stessi, dobbiamo partire da noi stessi. A questo punto, Salvatore si arrabbiava e lasciava la compagnia dell’amico. Fu in un momento di crisi che si ricordò della parola “cambiamento”. Un forte dolore al petto e la paura dell’infarto lo portarono a riconsiderare le parole di Luigi. Cambiare, cambiare. Come si fa a cambiare a sessant’anni? Dopo una vita trascorsa in un certo modo, a criticare tutto e tutti, a cercare sempre di imporre le proprie idee senza dare agli altri la possibilità di controbattere, una vita da arrabbiato, da deluso, una vita in cui anche i pochi momenti di serenità erano stati velati dall’insofferenza verso tutti. Come si può ora intraprendere un percorso diverso? Dobbiamo sempre ricordarci che dentro di noi esiste un grande potenziale, gli disse allora Luigi quando lo andò a trovare in ospedale e che, quando vi accediamo, la nostra biologia reagisce in modo positivo. Occorre rimettersi in discussione ,cercare di sentirsi bene dentro e togliere di mezzo preconcetti e falsi moralismi. Allora era iniziata per Salvatore una specie di verifica. “Cosa ho imparato nei miei primi sessant’anni? E perchè ho creato l’infelicità attorno a me?” si chiedeva. Che avesse creato l’infelicità era un dato di fatto. La moglie l’aveva lasciato per andare a vivere in una città del nord. "Non ti sopporto più- gli disse un giorno- vado a fare la donna di servizio, la bidella, la sguattera, ma voglio riprendere in mano la mia vita!" " Tu non vai da nessuna parte!- disse lui - non ti azzardare a uscire da questa casa !" Lei invece era uscita. Libera e felice era uscita per non tornare più. Non era la donna per me, aveva allora detto lui. Troppi grilli per la testa. La donna deve sottostare al marito, ubbidire e tacere. Ora , dopo tanti anni, riconosceva i suoi errori. Ho sbagliato con Maria. Non dovevo comportarmi in quel modo. Come posso alla mia età riparare ai danni commessi ? Quando salì le scale di casa, in quel centro storico in gran parte disabitato, gli ritornò per un attimo l’idea della sua solitudine. Un tempo in quel grande caseggiato avevano abitato tante famiglie. Si poteva ancora intuire in che modo avevano vissuto gli abitanti della casa. Tutti insieme, in promiscuità, senza spazi privati da rispettare. Le donne sedevano giù nei piccoli cortili interni e lavoravano all’uncinetto, i bambini giocavano tranquillamente e, se avevano voglia di spazi liberi, si trasferivano nella piazzetta vicina dove tiravano calci ad una palla di pezza. Poi era cambiato tutto. Gli abitanti del centro storico, in seguito al terremoto che aveva colpito la valle del Belice,avevano abbandonato le loro case per andare a vivere in periferia. La via Porta Palermo era rimasta disabitata. I negozi erano stati chiusi e le case abbandonate. Un tempo quella era la strada del passeggio. Anche Salvatore, con gli amici di un tempo, aveva camminato per quella via discutendo e chiacchierando. Di che? si chiedeva ora. Ai tempi della sua trascorsa giovinezza si era soliti fare il giro, cioè percorrere passeggiando il perimetro attorno alla città. Si partiva da un punto qualsiasi , dalla piazza o dal corso e, finito il giro, ci si ritrovava nello stesso punto di prima. Era così bello “fare il giro”! La formula dialettale era appunto quella. Si diceva “fare il giro” per dire facciamo una passeggiata insieme, distraiamoci, usciamo fuori dai nostri pensieri. Ora però, quando Salvatore tornava a casa, incontrava solo Tunisini. Nel pomeriggio, intorno alle cinque, nell’aria stanca che precede la sera, si sentiva il loro invito alla preghiera e sembrava di essere in un paese arabo. Per Salvatore era stato solo un lamento noioso. Non sopportava l’idea che gente di altra razza e altra cultura fosse venuta ad abitare e contaminare il suo quartiere. Qui hanno vissuto i nostri antenati, diceva, c’è la nostra storia, le nostre radici di popolo siciliano, perché dobbiamo ascoltare i loro suoni? Quando sentiva la voce del muezzin diffondersi con l’altoparlante, saliva in terrazza e cercava di scorgere, attraverso i tetti, la fonte del rumore. Guardava con un binocolo e scrutava i terrazzi, tutti in fila, l’uno dietro l’altro, così attaccati fra loro come un unico grande spazio che si poteva percorrere camminando sui tetti delle case. Il terrazzo della sua casa era tutto cementificato. La casa era stata ristrutturata, erano state fatte le fondamenta, ripreso il prospetto e rimesso a posto l’androne da cui si partiva la scala di marmo che separava i vari appartamenti. Gli abitanti della casa, di comune accordo, avevano deciso di ristrutturare l’edificio ma gli appartamenti erano rimasti desolatamente vuoti. Camminando su tetti e terrazzi si poteva però arrivare in case diverse, case da cui si entrava da una strada diversa. Dopo aver cenato da solo , Salvatore sentì il bisogno di conversare con qualcuno. Salì in terrazza e chiamò: << Jemila !>> Jemila, la donna tunisina che abitava nella strada parallela alla sua ma raggiungibile attraverso i tetti ed i terrazzi , aprì la porticina del suo minuscolo appartamento e sporse la testa. "Signor Salvatore, ha chiamato?" "Si, volevo sapere come sta tuo figlio ! avevi detto che stava male." " Grazie, grazie ! sta un po’ meglio ora. Lei molto gentile!" " Ha qualche problema con la scuola ? Ha perso tanti giorni di studio. Fallo venire da me, lo aiuto io. " Salvatore, il mazarese , si sentiva ormai amico di tutti e disposto ad aiutare chi aveva bisogno. Era questo il cambiamento di cui gli aveva parlato il suo amico Luigi. Il cambiamento voleva dire anche apertura di cuore ed era anche un modo per sentirsi meno soli.