mercoledì 5 dicembre 2012

I CAVOLFIORI

I CAVOLFIORI Seduto su una vecchia sedia posta in un angolo dell’orto, guardai con soddisfazione la mia bella raccolta di tre grossi cavolfiori. Erano venuti proprio bene. Pesavano almeno cinque chili per ciascuno. Forse anche di più. Tondi, bianchi e ben sodi, sembravano dei piccoli soli pronti ad irradiare con la loro luce il piccolo orto in cui erano nati. Mi sentii pervadere da un’ondata di benessere e di pace interiore e avvertii l’effetto rilassante che sempre la natura riusciva ad offrirmi. Ci vuole poco per generare una valanga. Immagini, sensazioni, parole, tutte le cose rimaste nascoste nell’interno della mente esplodono ad un certo punto della vita scatenando la fuoriuscita dei ricordi. E come la valanga, mentre scende a valle, lascia intravedere il materiale di cui è composta, così anche noi, lasciando scorrere il film della nostra vita o quello delle persone a cui siamo stati legati, avvertiamo la nostra più segreta essenza. Quel giorno i cavolfiori riuscirono a far sorgere in me, uomo adulto, un’incredibile nostalgia e dalla nostalgia si cominciarono a stagliare luoghi e figure del passato . Rividi con la memoria l’estate del 1953, una delle giornate più umide e calde di luglio. Sembrava che il mare, dopo aver catturato il caldo rovente dell’aria, si stava divertendo a riversarlo sulla città sotto forma di umidità . Salìi sulla motocicletta “Galletto” di mio padre con atteggiamento spavaldo; intorno a lui e alla moto si radunava intanto un gruppetto di parenti, amici, vicini di casa, curiosi, venuti ad assistere alla sistemazione sulla moto della famiglia. Mia sorella Rosa Maria cercò di sistemarsi in piedi davanti al guidatore, mamma Brigida si arrampicò sul sedile dietro e, dandosi una rassettata alla gonna che non sapeva come avvolgere attorno al corpo, cercò un qualsiasi appiglio per fermare le gambe penzolanti. Saluti e raccomandazioni dei parenti :<< Mi raccomando, Biagino, non correre, sta’ attento a li picciriddi ! >> Mia sorella Enza, rimasta con la zia, salutò contenta il resto della famiglia che si apprestava a partire. A lei era stata risparmiata la scomodità del viaggio. Mio padre pestò a terra la cicca di sigaretta che aveva fumato sino quasi a bruciarsi le dita, controllò ancora una volta la stabilità sul sedile della moglie e di noi due bambini, mise sul naso gli occhialoni scuri, un rombo di motore e via. Io rivolsi , con la coda dell’occhio, un’ultima occhiata ai compagni di gioco rimasti fermi sulla strada e mi sentii pervadere da un moto di stizza. Fra poco andranno a divertirsi, faranno dei tuffi a mare e parleranno di me ridendo, pensavo. Mischinazzo, diranno, mischinazzo. Forse è opportuno stringere forte la mamma per non cadere dalla moto. Sono quasi contento di stare abbracciato a lei, di solito non sono abituato alle sue effusioni d’affetto. Sulle braccia e sulle gambe è piuttosto visibile il nero dei pizzichi e dei morsi che lei mi dava come punizione quando commettevo delle monellerie. Due ore buone di viaggio per arrivare fino al paese di Santa Ninfa. La moto andava lentamente lungo la strada statale sotto un sole che sembrava voler bruciare ogni cosa. Ogni tanto mio padre fermava la moto per una sosta che serviva a sgranchirsi le gambe . Io ne approfittavo per dare dei calci a una pallina che avevo portato con me. L’ultimo tratto di strada non finiva mai. Avvertivo a tratti un blocco nello stomaco e, per evitare la sofferenza che mi divorava, cercavo di distrarmi guardando il panorama . I miei genitori volevano affidarmi al nonno e lasciarmi con lui in campagna, un posto abbandonato da Dio e dagli uomini. Come il Pollicino della favola, cercavo di fissare bene in mente il tragitto, per organizzare un eventuale ritorno. Non avevo però con me sassolini nè molliche di pane per segnare la via, così mi accontentavo di stringere forte mia madre e con lei sobbalzare quando la moto cercava di districarsi tra le buche del terreno. Apparve improvvisamente dietro una curva, il piccolo paese di Santa Ninfa. Aveva il solito aspetto sonnolento di sempre. Qualche donna seduta all’ombra davanti alla porta di casa lavorava la curina per fare le scope, pochi bambini giocavano all’aperto. Erano bambini molto piccoli, perché i più grandicelli si trovavano in campagna a lavorare. Attraversato il paese, mio padre si diresse a nord del centro abitato fino a quando la campagna coltivata scomparve per lasciare il posto ad un terreno incolto pieno di erba bruciata e sterpaglie : Le Fontanelle. Un vecchio casolare costruito con le pietre del luogo poste l’una sull’altra e legate insieme da calce biancastra e all’interno stanze spoglie, pochi ed essenziali i mobili. Una cucina con un lavello di pietra sempre pieno di verdura selvatica, un tavolo di legno su cui stava poggiato un vaso con fiori di campo, sedie di paglia e qualche cuscino colorato. Niente luce elettrica, niente radio, telefono, frigo, gas per cucinare, doccia per lavarsi. Si avvertivano profumi impalpabili e naturali che profumavano piacevolmente l’aria: odori di frutta, conservata a terra in un angolo della cucina, odori di origano, menta ,rosmarino, timo, satareddu , tutt’intorno alla casa e nello spiazzo antistante. Il nonno non era in casa. Lo cercammo nei paraggi . Gridavamo: - Nonno, nonno !- Poi si sentì uno sparo. - Lu nonnu ammazzà un aceddu! disse mio padre rallegrandosi al pensiero della carne che avremmo mangiato a pranzo. Seduta su un gradino di pietra, mia sorella si mise a giocare con le formichine. La mamma entrò in cucina e pensò subito al pranzo. Mio padre disse: -Sta attento, Rinuzzu, ubbidisci sempre al nonno, nun lu fari arrabbiari. oramai si’ granni , si’ omu ! Un uomo, un uomo. Io però non volevo ancora essere un uomo. Troppe responsabilità hanno gli uomini. E poi rimanere in campagna con il nonno,solo e senza amici. Come avrei trascorso le giornate? E mio padre? Quando sarebbe tornato a riprendermi? I primi giorni trascorsi con il nonno mi sembrarono eterni. Nessun rumore o suono in quella zona sperduta della campagna siciliana tranne lo stormire di foglie degli alberi e i versi delle galline che razzolano libere fra i campi di stoppie. Davanti alla casa si stendeva una valle, in parte coltivata a grano e cotone; dietro si poteva vedere il costone di una montagna, che presentava delle strane fessure . “Li finistreddi”le chiamavano per la loro forma caratteristica di aperture ricavate nella roccia. Erano nient’altro che sepolture costruite in epoca preistorica da popolazioni autoctone. Io fantasticavo su quel paesaggio e pensavo agli alieni, creature di altri pianeti che la notte venivano lì a rifugiarsi. - Non voglio stare qui da solo- dissi al nonno una mattina - voglio la mamma ! -Va bene, va bene, la mamma. Tutti vogliono la mamma. Anche la capretta cerca la mamma. E l’uccellino che ho preso ieri non cercava puru iddu a so matri? Bisogna fare sempre quello che ogni giorno si presenta davanti a nuautri. Oggi siamo qui e ci godiamo l’estate e la campagna, domani si vedrà. Così mi rispose il nonno. Una mattina, al risveglio, spaventato dal silenzio, avvertii una forte nostalgia della mia casa. Nostalgia che si tramutò in pianto. Avevo fatto un sogno molto strano. Vedevo degli uccelli che fluttuavano nell’interno di una stanza, volavano in alto quasi a voler toccare il tetto di travi dove cercavano di nascondersi e mimetizzarsi. Capii che gli uccelli visti nel sonno erano proprio quelli che il nonno catturava ogni giorno e che si divertiva ad imbalsamare. Soffrivo per loro, per l’immobilità in cui venivano costretti a vivere. Li vedevo diventare testimoni muti dello scorrere del tempo. -Veni ccà, Rinuzzu, t’insignu a fari stu misteri! Un mestiere. Chiamava mestiere quello che faceva ! Svuotava l’interno degli animali fino a lasciare solo le penne e un sottilissimo strato di pelle, poi li ricostruiva, li rimetteva in vita introducendo una specie di paglia giallastra a posto dei loro organi. Cuciva tutto e dava parvenza di vita ad animali morti. Per il nonno quello era un lavoro di pregio. La prima volta che lo vidi fare quelle operazioni, corsi fuori disgustato. Ero attratto però dalla sua cassettina degli attrezzi, quello sì! Un giorno che non c’erano uccelli morti in giro, volli aprire la cassetta che il nonno custodiva gelosamente e che non permetteva a nessuno di toccare. C’erano arnesi di tutti i tipi, coltellini , bisturi, lamette, fili di ferro , il tutto impregnato da un forte odore di disinfettante di un colore rosso cupo, che sembrava sangue umano. -Non farò mai questa cosa- dissi- e non andrò mai a caccia come fai tu e come fa mio padre! Poi pian piano, mentre trascorrevano i giorni, mi abituai allo stile di vita del nonno. Mi piaceva molto andare con lui in una radura in mezzo agli alberi di eucalipto. Avvertivo con piacere il leggero rumore della brezza che sfiorava le foglie degli alberi, i brusii degli animali e la vita della natura che offriva il suo spettacolo di vita . Percepivo una strana energia nell’aria. A volte, per alcuni istanti, gli occhi mi si riempievano di lacrime, senza che sapevo spiegarmi il motivo di quella commozione. Siamo al centro dell’universo, pensavo spesso, mi trovo in un posto magico. Il nonno, d’altra parte, faceva di tutto per trasferirmi le sue sensazioni di benessere. Alcune le accettavo , altre no. Molte sere le trascorrevamo nello spiazzo dell’aia con gli occhi in su a guardare il cielo stellato e a sorridere alla notte che stava per arrivare, mentre il nonno recitava il rosario. A forza di guardare il cielo , imparai a guardarlo con amore, a parlare con lui e ad identificarmi con gli uccelli che volavano in alto da creature libere. <