giovedì 2 dicembre 2010

UNA MADRE



Vi sono esperienze tanto profonde nella vita di noi uomini da finire con l’assumere, per chi le vive, un significato definitivo da cui non è più possibile tornare indietro. Sono quelle in cui si entra in contatto con qualcuno che diventa la persona più importante della nostra vita e che non potremmo mai lasciare al suo destino. Di solito questo rapporto di reciproca appartenenza è proprio fra genitori e figli o fra coniugi legati da intesa profonda; molto più raro è il caso di chi offre l’intera sua vita per il bene di qualcuno che non ha generato direttamente ma che ha accolto nel suo grembo con amore dedicandosi nel bene e nel male. Più male che bene nella vita di Annuccia, quarantanovenne cerebrolesa, bisognosa di tutto.
Mi accoglie con un mugugno di gioia mentre muove scompostamente le braccia ; il suo corpo sembra voler scivolare via dalla sedia a rotelle che l’accoglie per buona parte della giornata. La bacio con affetto e lei risponde al mio bacio porgendomi la sua attenzione e riconoscendomi come amica della madre. Ecco qui la madre. Piccola ed esile, sempre pronta a travolgere con un’onda di amore la sua bambina di quarantanove anni. Quando la stringe a sè per farla alzare dalla sedia lo fa con una forza che non sembra venire dalla sua fragilissima figura e quando l’accarezza, le sue mani hanno il tocco di un fiore, sono leggere come il vibrare di un’ala e dolci come l’amore. L’esperienza che si vive conoscendo Annuccia e la madre Rosanna è difficilmente traducibile in parole.
Tentare di descrivere una donna come Rosanna è come rimpicciolirla, portarla al nostro livello, mentre lei vive in una dimensione molto più alta e diversa. Nella sua figura traspare l’Amore.
E’per amore del suo uomo che Rosanna ha lasciato parecchi anni fa il suo paese natale, Como, ed è venuta a vivere in Sicilia. Esperta magliaia e lavoratrice nella vicina Svizzera, è arrivata a Mazara del vallo per avviare una impresa artigianale per conto di un signore mazarese che lavorava in Svizzera.
A Mazara, la venticinquenne Rosanna ha conosciuto Giuseppe, vedovo con due bambine a carico. Una delle due bambine, la piccola Annuccia, presentava gravi problemi di handcap.
Il primo incontro tra Rosanna ed Annuccia ha avuto del sorprendente. La bambina, che pronunciava poche parole e aveva grossi problemi di comunicazione, ha subito pronunziato per lei la parola più dolce del mondo: mamma. E mamma è rimasta, per più di quaranta anni. Oggi Rosanna vive da sola con Annuccia. Il marito tanto amato è scomparso alcuni anni fa e a lei è rimasta la figlia.Il suo non è però un fardello. Piuttosto è la responsabilità di un’esistenza che ha affidato a lei il compito di dirigere e organizzare la sua vita. Rosanna, la Madre, lascia scorrere la sua energia in quella della figlia e questo scorrere è per lei dolce come una melodia d’amore.


MARIA GRAZIA VITALE

martedì 8 giugno 2010

La calata di stomacu e lu scantu

Tutti qui in Sicilia abbiamo sentito parlare di “calata di stommacu”. E’ un’arte antica tramandata da donne siciliane, vecchie zie, nonne o vicine di casa che, forti del loro sapere, si adoperavano per risolvere difficili situazioni di malessere che, secondo la credenza popolare, il medico non sarebbe riuscito a risolvere.

Diciamolo apertamente:c’è in noi la tendenza sentirci un po' medici. Non c’è persona infatti che,ancora oggi, visitando un amico o un parente affetto da qualche malattia, non abbia da dire la sua, arrivando addirittura a criticare quella particolare medicina o il rimedio che il medico ha suggerito di adottare.

In passato questa tendenza era considerata una cosa normale e affidabile era il parere della persona saggia capace di fornire rimedi naturali recitando le giuste orazioni.

Nella cultura popolare siciliana era molto diffuso il rimedio della “calata di stommacu”. Tale rimedio nasceva dall’idea che, all’origine di molte malattie, vi fosse uno scantu . Scantu significa spavento, paura improvvisa, ma con questo termine erano indicate anche la susseguente malattia e la terapia relativa. Lo scantu o spavento poteva essere provocato da qualsiasi cosa: dall’avere assistito ad un evento spiacevole, da un rumore improvviso, da un incidente, dall’assalto di un animale o dalla caduta dalle scale o da un albero; ogni accadimento poteva essere fonte di scantu.

Lo scantu colpiva con maggiore facilità le persone più deboli come i bambini, le donne e i vecchi, ma tutti in realtà erano, e sono ancora, soggetti a scantarsi. I sintomi relativi alla malattia da scantu erano: mal di pancia, febbre, nausea,vomito, lamenti strani, strabuzzamento di occhi e, nei casi più gravi, anche difficoltà a respirare. Nei bambini anche un pianto insistente poteva essere utile per diagnosticare uno “scantu”.

Non c’era bisogno di un medico per una diagnosi di scantu perché erano gli stessi familiari, le vicine di casa, le persone anziane che si accorgevano che era in atto una malattia di questo genere.

Effetto scatenante dello scantu era la fuoriuscita, dall’involucro proprio situato nello stomaco, dei vermi intestinali, una specie di parassiti che, secondo le credenze popolari, soggiornano nel nostro corpo. Questi vermi, uscendo dal proprio sito naturale, attaccavano le pareti dello stomaco per muoversi poi all’interno dello stesso. Salendo nell’interno dell’organismo, potevano giungere fino alla gola del malcapitato causandone perfino la morte per soffocamento.

Nello rappresentazione popolare i vermi, usciti fuori in seguito ad uno scantu, si accumulavano come una palla muovendosi verso l’alto; scopo della terapia era quella di fare scendere questa palla verso il basso mediante la calata di stommacu .

Ci si rivolgeva quindi ad una donna che sapesse calare li vermi o lo stomaco, ripristinando la situazione naturale propria dell’organismo. Ricordiamo che erano quasi sempre le donne a occuparsi di questo tipo di interventi e ad investire del loro sapere altre donne.

La terapia contro i vermi consisteva di due parti: una meccanica o gestuale e una oratoria, dove veniva recitata l’orazione.

La donna esperta nell’arte di calare lo stomaco iniziava le sue operazioni facendo il segno della croce insieme a tutti i presenti.

La gestualità era considerata molto importante in questo tipo di pratica poiché l’esito dell’intervento dipendeva da come venivano meccanicamente effettuati tutti i gesti.

Si procedeva con un accertamento della diagnosi della malattia. La donna toccava lo stomaco del paziente appoggiando una tazzina da caffè, “la cicaredda”, unta ai bordi con olio e aglio. Se la tazzina non si staccava dalla pelle del malato voleva dire che c’era stata una fuoriuscita di vermi.

Veniva quindi massaggiato lo stomaco del paziente; i massaggi dovevano essere fatti procedendo con un movimento verso il basso in modo da riportare i vermi verso il proprio sito naturale.

Mentre effettuava il massaggio con la mano intrisa d’olio, reso santo dal segno di croce,la donna recitava la seguente orazione:

Lunniri è santu

martiri è santu

mercuri è santu

ioviri è santu

venniri è santu

sabatu è santu,

la duminica di Pasqua

stu vermi ‘nterra casca.

In questa orazione la pratica per calare lo stomaco veniva comparata alla settimana santa ed il decorso della malattia corrispondeva alla passione e morte di Cristo. La domenica di Pasqua era paragonata al momento della guarigione.

Il rito si doveva eseguire il mattino presto o al tramonto per tre volte nello stesso giorno, o in caso di una situazione grave per tre volte di seguito, solitamente la mattina.

Oltre all’olio anche ad altre sostanze venivano attribuite proprietà terapeutiche, come ad es. l’aglio e il petrolio che, con il loro odore piuttosto acre, avevano la capacità di fare scappare i vermi mandandoli “verso il basso”.

La guarigione del malato era quindi merito dell’intervento divino o della grazia di un Santo protettore che, tramite la mano della donna , effettuava il miracolo.

La calata di stomaco, magari priva del significato originario, ha continuato ad esistere nella pratica popolare mentre lu bicchieri di scantu, fino a pochi decenni addietro, veniva richiesto al farmacista come medicina miracolosa per risolvere situazioni di paure e di shocK.

MARIA GRAZIA VITALE

mercoledì 10 marzo 2010

Una donna: Brigida

UNA DONNA : BRIGIDA

Cullata dal vento di marzo

ti libri leggera nell’aria,

inizia il tuo ultimo viaggio.

“Finita è la festa” , dicevi

e l’anima nuda vibrante

lascia il corpo già stanco

incontro al cielo rossastro.

Si ferma una storia, una vita;

gioie, sincere emozioni,

eterni dolori sofferti,

lasciano una scia d’amore

nel tempo che scorre impietoso.

mercoledì 10 febbraio 2010

Vado a trovare Jamila, una donna tunisina quarantottenne che conosco ormai da venti anni. Avverto nell’aria della sua casa profumi di cibo a cui non sono abituata, ascolto la voce di uno speaker arabo che legge le notizie del telegiornale tunisino e mi sento catapultata di botto in un posto non mio, un posto che non mi appartiene. Tappeti di ogni dimensione sono sparsi a terra fino a ricoprire l’intero pavimento, tende ed arazzi sulle pareti e pochi essenziali mobili nel salotto di casa. Jamila, la padrona di casa, indossa la veste tipica della sua terra lunga fino ai piedi ed in testa porta il solito fazzolettone che le ricopre i capelli. Anche la figlia più grande, Meriam, indossa una veste simile a quella della madre; lei però porta i jeans sotto il vestito .

Ricordiamo insieme, ridendo, i tempi lontani in cui ci siamo conosciute. Volevo insegnarle l’italiano. La nostra lingua era, però, per Jamila una cosa incomprensibile, era arabo, potrei dire con una battuta. Non riusciva a pronunziare nessuna parola, si mostrava completamente restia all’apprendimento, anche di cose molto semplici, e rideva divertita ad ogni mio qualsiasi serio tentativo d’istruzione.

Le sue difficoltà non erano però solo per l’uso dell’italiano. Jamila sconosceva gli elettrodomestici, non aveva mai visto un aspirapolvere o il “mocio” per lavare i pavimenti. Era venuta in Italia, giovane sposa,per stare insieme al marito e, ospiti presso una famiglia amica, dormiva su un materasso posto a terra. Jamila era allora incinta e disposta ad affrontare qualsiasi difficoltà pur di stare con il marito. Dopo la nascita della sua prima figlia, che fece nascere in Tunisia e là la lasciò per quasi tredici anni, si diede da fare per contribuire all’esiguo bilancio familiare, (il marito, Salah, faceva saltuari lavori in campagna) inserendosi nel quadro delle possibilità di lavoro offerte dal nostro contesto.

Imparò a fare i lavori domestici ed a frequentare le case di alcune signore della città. <<>>. La sua casa, con il tempo, è divenuta molto più confortevole e, anche se modesta, si è arricchita di elettrodomestici .Un grosso freezer troneggia in cucina come simbolo del raggiunto benessere. Nel freezer Jamila conserva il pesce che il marito porta a casa dopo i tre o quattro mesi che trascorre sul mare a bordo dei pescherecci. La fatica è tanta, lo stipendio irrisorio. Quando la pesca va bene, sono settecento cinquanta euro al mese.

Cancellato il progetto di ritorno definitivo alla terra di origine, Jamila e Salah hanno riportato in Italia le due figlie maggiori che avevano fatto crescere in Tunisia,( la terza è sempre rimasta in Italia ed ha studiato in scuole italiane) e si sono insediati stabilmente a Mazara.

La comunità musulmana a Mazara del Vallo

Premetto che non sono una oratrice e che la mia relazione è frutto di esperienze personali e colloqui avuti con operatori del sociale della mia città. Mi chiamo Maria Grazia Vitale ; sono nata e ho sempre vissuto a Mazara del Vallo dove ho svolto la professione di insegnante della Scuola Media e delle Superiori.

Mazara del Vallo, città situata al limite estremo della Sicilia, è stata definita dalla stampa la città più araba dell’Europa, sia per l’alta percentuale del gruppo arabo immigrato che per il fatto di essere una delle più antiche aree di immigrazione nel nostro territorio. E’ una specie di specchio anticipatorio di dinamiche che in futuro potrebbero maturare in altre zone d’Italia. In un video di recente pubblicazione dal titolo "Musulmani in Italia" (edizioni Mille - Novat) dove si affrontano i complessi temi dell'inserimento dei Musulmani in Italia, si parla della comunità araba di Mazara del Vallo e la si mette a confronto con altre comunità del centro e settentrione d’Italia. Scrittori locali e nazionali si sono occupati del problema immigratorio nella mia città e molti giovani laureandi di Sociologia e Scienze delle comunicazioni oggi scelgono come tesi di laurea l’argomento oggetto della presente relazione.Leggere l’esperienza dei Tunisini immigrati nella mia città può dare un aiuto per capire i ritardi e le difficoltà nel divenire dell’integrazione, i limiti e le resistenze ma anche le potenzialità e le contraddittorietà di questo fenomeno che investe ormai tutta quanta la nostra nazione.

Chi sono allora gli immigrati di Mazara del Vallo , quale cultura hanno portato con sé e, soprattutto ,quale tipo di rapporto sono riusciti ad instaurare con la gente autoctona? Si è realizzata l’integrazione dopo più di 40 anni di insediamento? Alla luce delle mie esperienze e di quelle dei personaggi che ho voluto incontrare nel corso di questa mia indagine,la risposta a quest’ultima domanda è che non si è ancora realizzata una vera integrazione .

Essa, l’integrazione, non è certamente un’opera di adattamento, di assimilazione, di lento e selettivo assorbimento degli immigrati entro le strutture di relazione del nostro mondo occidentale. Non può dipendere solo dagli sforzi dello straniero per sfumare o cancellare la propria identità, i suoi tratti etnici e culturali attestanti la sua “diversità”. Dipende sicuramente da ben altro. Dipende dalla formulazione di nuove prospettive, che tengano conto della compresenza e della interazione fra culture diverse, dipende da una gestione articolata delle differenze,da una rielaborazione di eredità e patrimoni etnici,da una visione antropologica di ampio respiro ,insomma. E’ certamente un processo molto lento e di difficile attuazione. Per quanto riguarda gli extracomunitari, preferisco allora parlare di inserimento-adattamento. Un gruppo di minoranza, uscendo dall’anonimato, cerca di farsi accettare dalla maggioranza autoctona continuando a rimanere quello di prima, con le sue regole, i principi religiosi , la sua cultura .

Oggi il 90% degli immigrati a Mazara è tunisino, anche perché la città dista appena 140 chilometri via mare dalla Tunisia. Alla comunità tunisina che vanta una storia di migrazione di più lunga durata nel tempo, si sono gradualmente aggiunte, nel corso degli anni, presenze di altre etnie, tra cui spiccano quelle provenienti dalle aree dell’ex Iugoslavia (rom) e del Marocco, sia pure con proporzioni di molto ridotte rispetto a quelle dei primi venuti. I Marocchini hanno in città una presenza quasi “invisibile”, che si confonde con quella predominante dei Tunisini. Più interessante è il caso dei rom o “Slavi”, come vengono soprannominati. Il loro inserimento all’interno dei quartieri abbandonati del centro storico, la fama di mendicanti o ladri che li accompagna, l’inveterata abitudine a sfoggiare monili d’oro e macchine di grosse dimensioni fanno sì che il “peso” sociale e simbolico loro assegnato dagli Italiani e dagli stessi Tunisini sia all’ultimo posto nella gerarchia delle etnie.

I primi Musulmani che, negli anni settanta , attraverso il Canale di Sicilia, arrivarono a Mazara del Vallo facendo lo stesso tragitto dei loro antenati conquistatori, si insediarono nelle case del Centro Storico della città, proprio dove un tempo avevano vissuto i loro lontani antenati. Il loro è stato un infelice ritorno , come ebbe ad affermare un sociologo mazarese,il professore Antonino Cusumano, in un libro dal titolo “Il ritorno infelice ”; è stato un ritorno fatto di sofferenze e privazioni di ogni sorta. Primi ad arrivare sulla costa siciliana, quasi in avanscoperta, furono uomini soli ,di età compresa tra i 25 ed i 30 anni. In una seconda fase, cominciarono ad arrivare le donne e si ricomposero interi nuclei familiari. Ci fu allora in città un notevole incremento demografico .