martedì 10 novembre 2009

INSONNIA

INSONNIA

Buia notte da insonne,
confusi pensieri.
Tarda a calmarsi la mente:
suoni, parole dette e non dette,
respiro affannoso,
timido scorrer di ciglia,
lava infocata bruciante
del mio vulcano interiore.
Attendo rumori,
echi di vite diverse
scanditi dal tempo che passa
e porta con sé le mie angosce.

domenica 2 agosto 2009

Giocavamo alla Casina

GIOCAVAMO ALLA “CASINA”

di Maria Grazia Vitale

Dalla piazza Matteotti le vidi avanzare verso il Corso procedendo quasi in fila. Due ragazzette andavano avanti dandosi la mano, altre due seguivano a breve distanza mentre le ultime due completavano la fila. Si sentono come a scuola, pensai, camminano disciplinatamente e non scendono dal marciapiede anche se la strada è tutta libera.
A Mazara infatti il sabato pomeriggio il Corso rimane libero dal traffico automobilistico e permette agli adulti di passeggiare tranquillamente anche nel centro della strada ed ai bambini di correre liberamente da una parte all’altra. Due donne a braccetto al ritorno della messa vespertina si raccontavano gli ultimi avvenimenti, mentre i commessi dei negozi si preparavano alla chiusura e pregustavano l’uscita del sabato sera.
Tutto il Corso si preparava alle distrazioni del sabato notte.
Il gruppetto delle ragazzine mi passò davanti con un cicaleccio allegro e palpitante di vita proprio mentre, in un momento di pausa, mi ero ritrovata quasi a spiare, dal balcone di casa, la vita del Corso.
Non avevano più di undici, dodici anni, le ragazzine, ma si atteggiavano a signorinelle e, mentre procedevano barcollando su scarpe dal tacco troppo alto per la loro età giovanile, gettavano occhiate fugaci a gruppi di maschietti, giovanissimi anche loro, che andavano avanti spingendosi chiassosamente.
Le due ragazzine in prima fila, quelle che si davano la mano, indossavano entrambe una gonna molto corta e una camicetta che lasciava fuori il pancino e l’ombelico. Nella mano libera portavano una borsetta piccolissima da cui tiravano fuori continuamente il cellulare. Una ragazzina di centro aveva una stazza considerevole, ma con la noncuranza tipica dell’età, si era fasciata in un mini abito color melanzana stretto, aderente e cortissimo. Le altre tre indossavano normalissimi jeans e semplici magliette. Erano straordinariamente giovani ed inesperte e le loro espressioni infantili mi fecero pensare alla mia infanzia lontana.
Dopo un po’ di tempo, forse il tempo occorrente per arrivare fino in piazza Mokarta e tornare indietro, dovetti occuparmi ancora delle ragazzette.
Si erano piazzate infatti dietro la porta di casa mia, sedute sul marciapiede e senza le scarpe con i tacchi che, a quanto pare, avevano procurato loro dei fastidi.
- Che fate, ragazze? - dissi quando le vidi stravaccate dietro la porta di casa - avete bisogno di qualcosa ?
- No, non si preoccupi, signora - mi rispose una ragazza - ci riposiamo e giochiamo con il telefonino.
Mi accorsi allora che tutte quante avevano in mano un cellulare e, ognuna per suo conto, stava giocando o mandando messaggi, non capivo bene.

Mi rividi bambina. Cosa facevo alla loro età? Io e le mie compagnette giocavamo alla casina.
Ci radunavamo nei crocicchi delle strade alla luce di un lampione e decidevamo di giocare insieme. Le gote rosate per il vento, traboccanti d’allegria ed eccitazione, saltellavamo e correvamo da un punto all’altro gridando con le nostre voci ancora acerbe ed in via di formazione.
Non c’era bisogno di attrezzi particolari, né occorreva ingegno ed abilità per giocare alla casina.
C’era bisogno soltanto di un pezzo di carbone, un gesso o qualcosa che potesse lasciare un segno sul lastricato della strada.
Si cominciava a tracciare un grosso rettangolo, nel cui interno si delineavano dei quadrati, quattro per l’esattezza, uno in ogni angolo. Al centro ridefiniva il disegno chiudendo con una grossa ics.
Si procedeva quindi alla numerazione: dal numero uno al numero otto.
E, a questo punto, il gioco poteva cominciare. Ciascuna delle giocatrici, dopo aver provveduto a procurarsi una pietra, la baggiana - di solito era qualche pietruzza che trovavamo per strada o un sasso che avevamo trovato in spiaggia e che avevamo conservato per poter fare il gioco - si preparava al lancio ed all’attraversamento delle sezioni in cui era stata divisa la casina.
Uno, due, tre, via. Regola numero uno: la baggiana deve entrare all’interno della sezione senza toccare alcun limite, cioè non deve toccare la riga divisoria o entrare in una sezione diversa da quella che spetta toccare. Se si sbaglia, bisogna riprendere daccapo la numerazione.
Saltellavamo con un piede, con due piedi uniti, usavamo varie strategie per recuperare il sasso che avevamo buttato.
Quando i genitori ci chiamavano perché era tardi, ci salutavamo allegramente e ci lasciavamo inghiottire dalla oscurità della notte eccitate e stanche.
Le ragazzine di oggi mostrano un volto annoiato e sentono il bisogno di sedersi in qualsiasi posto per riposare le gambette stanche di stare sopra i trampoli, noi ragazzine di un tempo non sapevamo cosa fosse la noia, correvamo di qua e di là fino a cadere stremate sui nostri lettini per abbandonarci al sonno ristoratore.
Sarà stato meglio allora?

martedì 23 giugno 2009

La Putia

LA PUTIA

No, non è nostalgia. Non è neanche desiderio di ritornare al passato perché sarebbe da stupidi rinunciare al benessere conquistato negli ultimi decenni, è piuttosto un ricordo o una rievocazione di epoche lontane quando noi mazaresi non eravamo così smaliziati e diffidenti come lo siamo adesso.
L’epoca lontana a cui mi riferisco è quella che riguarda gli anni cinquanta e sessanta. Fase di ripresa economica e di cambiamento, fase di conquiste sociali e di innovazioni tecnologiche.
Ancora però , soprattutto nella nostra città, si continuava a vivere senza grossi salti di qualità, si tirava avanti secondo le abitudini acquisite nel periodo precedente, quello della guerra,della fame e dei forti disagi.
Cosa ricordo di quei tempi? La prima cosa che mi passa nella mente è legata al cibo e , facendo delle associazioni mentali, rivisito l’interno di “una putia”. Una putia? Cos’è una putia?
Nessun ragazzino dei nostri giorni riuscirebbe a capire il fascino di una putia. Ipermercati, supermercati, centri commerciali, file di merce messa a bella vista pronta ad essere acquistata , banconi di salumeria o di carne, oggetti vari messi a bella posta nel centro di enormi corridoi con i loro prezzi scontati e superscontati che ti invitano a riempirti la casa di cianfrusaglie di cui potresti fare volentieri a meno , un enorme spreco di cibo e di cose contro la semplicità estrema che si trovava in una putia.
La ricordo bene la putia della Formusa. Una stanza piccolissima nel Corso Umberto dove potevano stare al massimo tre persone e lei, la signora Formusa, dietro al banco, pronta ad esaudire le tue richieste.
-Che vuoi ? Tiravo fuori dalla tasca del vestitino il bigliettino della mamma e dicevo che volevo mezzo chilo di pane. La signora Formusa apriva dall’alto lo sportello di un mobile di legno dipinto d’azzurro che stava alle sue spalle , azzurro così come lo era la vetrina che occupava la metà dell’ingresso e come lo erano i grossi contenitori di farina e legumi posti in bella fila nella parete libera della stanza , e tirava fuori il pane caldo. Un profumo buonissimo si diffondeva allora nella putia e mi veniva voglia di mangiarlo subito quel pane, sbocconcellarlo prima di arrivare a casa mentre camminavo lesta lesta per non sentire troppo il suo calore sotto il braccio.
Nel Corso Umberto c’erano anche altre putie. Più grandi e più ben fornite. Il panino per la scuola lo sapeva fare bene il Marsalese. Lo chiamavano così perché il proprietario era originario di Marsala. Noi mazaresi abbiamo da sempre dato appellativi e soprannomi di riconoscimento alle persone. Quando l’appellativo riguardava un difetto o una qualità negativa si chiamava e si chiama ancora “ingiuria “.
Sempre nel Corso, proprio vicino alla Piazza Mokarta, c’era la spaziosa ed attrezzata putia di Gino Ferro, personaggio conosciuto con il suo vero nome e cognome. In piazza Chinea , don Vitino Cusumano si fregiava dell’appellativo del don e, ricoperto di un grembiulone bianco che arrivava fino ai piedi, esprimeva professionalità e rispetto per il proprio lavoro.
I suoi panini con la mortadella erano famosi e noi giovani davamo la caccia al panino della compagna di classe che, fortunata lei, abitava nella zona e portava in classe tutta la flagranza di un panino acquistato nella putia di don Vitino.
La putia. Qualcosa che non c’è più; così come non c’è più la mia trascorsa gioventù!

domenica 10 maggio 2009

cara sposa

: Cara sposa... Carissima, ho "spiato", con discrezione che tu tornassi a Facebook, perchè volevo dirti che questa mattina alle 7,30 ho finito di leggere il tuo libro. Mi ha coinvolta, emozionata, convinta. E ti dico grazie, a nome di tutti coloro che non hanno avuto "voce". Il tuo è un atto d'amore e di grande civiltà, un dono che hai fatto al tuo meraviglioso nonno , alla famiglia tua tutta e , ancor di più, a coloro che passano come ombre sulla terra disperata dell'emigrazione/emarginazione. Ho sinceramente amato Antonino e i suoi cari perchè tu li hai amati, ho gioito, sofferto e penato con loro e per loro, ho partecipato a tutti gli eventi dolci e amari della loro vita.Ti ringrazio del dono poichè un libro che è capace di creare emozioni è veramente dono!La tua opera merita una condivisione di molti (specie i giovani), di coloro che proprio oggi impediscono allo "straniero "di prender posto accanto a noi...Davvero, con vero cuore sincero ti ringrazio...In più aggiungo che il tuo ricordare proverbi, modi di dire e di fare, mi hanno riportata a uno degli affetti miei più cari: la mia nonna che, essendo del trapanese molte di queste cose preziose mi ha tramandato!Grazie, grazie, grazie! Antonino, Ciccina, e tutti gli altri, da un loro probabile cielo, ti sorrideranno! MARILENA MONTI

venerdì 6 marzo 2009

Lu zitaggiu . Dal libro "Cara sposa"

La futura sposa si mette un vestito verde, perchè è tradizione vestirsi di verde per il fidanzamento. Il verde vuol dire speranza e la speranza è che lu zitaggiu si risolve in matrimonio. Ben nascosto sotto il vestito appunta poi un nastro rosso che seve a combattere il malocchio. La tradizione è tradizione. Le famiglie di Mazara si comportano così da secoli e la famiglia di Ciccina non può venir meno alle regole fissate dagli antenati. L'acchianata, cioè il fidanzamento ufficiale, serve per la riconoscenza, la presentazione ufficiale dei due ziti alle rispettive famiglie.I doni che la famiglia del fidanzato fa alla ragazza sono significativi e carichi di gestualità.
Così è molto importante che la futura sposa sia pettinata dalla cognata più anziana perchè vuol dire che l'impegno viene preso dall'intera famiglia. E, da parte sua, la zita promette fedeltà ed ubbidienza. Ciccina pensava a queste cose mentre dava gli ultimi ritocchi ai capelli legati a forma di crocchia pronti a ricevere i pettinini che ufficialmente dovevano attestare il suo zitaggio. Si aggiustò il vestito che lei stessa aveva cucito e si guardò allo specchio della camera da letto della mamà.

lunedì 16 febbraio 2009

CARA SPOSA

Quale è stata la fine dell’emigrante Antonino Sicurella? Perché le autorità argentine non hanno mai risposto alle richieste formulate dalla famiglia?Questi gli interrogativi da cui si dipana il racconto che ha come protagonista un uomo del sud, un bottaio che si reca in Argentina per ben tre volte e che alla fine scompare senza lasciare traccia, proprio quando era già pronto a compiere il tanto atteso viaggio di ritorno.Non è un’ipotesi quella formulata dall’autrice, ma una vera risposta taciuta per anni e venuta fuori dopo lunghe e accurate ricerche condotte sia nell’ambito familiare che a livello di emigrazione internazionale.I tempi lontani in cui si svolge il racconto, i primi anni del 1900, sono resi vivi dai luoghi palpabili ed ancora visibili di una cittadina della costa siciliana, Mazara del Vallo. Il centro storico ,oggi in stato di abbandono, le tradizioni ed i riti in parte dimenticati, il carattere dei personaggi, buono ed ingenuo il protagonista, malizioso e fanfarone il compare, timida e riservata la moglie, psicologicamente provata la figlia, tutto contribuisce a rendere vivo il racconto dei fatti narrati.

venerdì 30 gennaio 2009

Quando vuole Dio !

A mala pena apre e chiude gli occhi. Ogni tanto però li gira verso destra, specialmente quando avverte dei rumori , poi li spalanca il più possibile spinta dal desiderio di comunicare con chi le sta accanto. Già, per comunicare. Ma che cosa? Che è ancora qui, viva, paralizzata, addormentata, priva di forze, distrutta, ma ancora viva.
Le mani sono rimaste bloccate sul petto, come a voler stringere quel poco di vita che le è rimasta, le dita sono diventate dure, rigide, piegate , arcuate, le braccia ferme non vogliono spostarsi, preferiscono cadere come peso morto lasciandosi piegare solo nei gomiti per ricongiungersi al petto. Anche le gambe hanno trovato una loro infelice sistemazione, si sono irrigidite in modo anomalo, la gamba sinistra ha preso una forma tutta sua con il ginocchio in alto piegato come quando si fa ginnastica, mentre l’altra gamba se ne sta girata dalla parte opposta, armoniosamente, elegantemente, sempre ferma nella stessa posizione.
Nella mente c’è il vuoto. Non quel particolare vuoto di quando uno si sveglia al mattino dopo aver dormito come un sasso e cerca pian piano di ricordare se stesso e tutto quello che dovrà affrontare durante la giornata, ma il vuoto più vuoto che ci sia, quello che ti fa perdere all’interno di te stesso e ti fa capire che non sei più nulla, sei diventato una cosa, un pezzo di legno, un mobile, anzi un soprammobile, un oggetto che non serve a niente, senza vita. Qualcuno ogni tanto la riscopre questa cosa inutile, la pulisce, la osserva e poi la dimentica. I soprammobili sono cose insignificanti e inconcludenti.
Ora è questa la sensazione: mia madre è diventata un statuina da presepe, sempre ferma nella stessa posizione, immobile. Aspetta la nascita del bambino Gesù.
Dipende in tutto dagli altri. Anche mangiare è un problema. Non sa, non ricorda più come si mangia. Il sapore del cibo, il gusto dolce del latte con i biscotti , quanto era buono! E la pasta con la salsa che divorava in un attimo, il minestrone, persino il semolino con l’olio le piaceva negli ultimi tempi ! La sera mangiava faceva spesso il pane cotto, con prezzemolo aglio ed olio , lo divorava in pochi secondi poi metteva la forchetta dentro al piatto come per dire “Era pochino, ne avrei mangiato di più!”
Sente delle voci , forse arriva qualcuno dei figli. Figli. Si sforza di ricordare i loro nomi ma non ce la fa. Gira gli occhi un po’ a sinistra, fissa lo sguardo, vede delle ombre.
A volte ha l’impressione che i suoi occhi si stiano liquefacendo, li sente sciogliere come la cera delle candele, quelle che accendeva davanti alle foto del marito, della madre, del fratello.
Marito, madre, fratello, figli, nipoti. C’era un marito , come si chiamava?.
Conviene avere pazienza. Prima o poi qualcuno dall’alto verrà a prelevarla .

Si sente schiacciata dal peso della coperta. Avrebbe voglia di togliere tutto, mettersi in piedi, camminare, anche solo per andare in cucina dove dovrebbe ancora esserci il divanetto.
Per anni è rimasta là, seduta, intenta a trafficare con una copertina colorata, a righe. La teneva attentamente fra le dita poi cominciava a formare, con la mano libera, delle piccole pieghe in uno degli angoli fino a comporre un piccolo fiore. Quando finiva l’ attento lavoro, rimaneva ben ferma, immobile, assorta ad osservare il suo capolavoro. Non volevo disfarlo, era una sua sudata fatica.
Forse, inconsciamente, rievocava la lunga vita di lavoro svolto con le mani, il cucito, il ricamo,il taglio delle stoffe e la manipolazione delle stesse là, sul tavolo di cucina, dove i fili delle stoffe si confondevano con gli ultimi avanzi di cibo , mentre i bambini più piccoli la reclamavano come mamma e lei delegava la figlia più grande a fare le sue veci. C’è silenzio nella strada. Forse è mattina presto o siamo già nel pomeriggio, non si capisce bene.
Ma non si può morire,così asciutta ,asciutta, senza ricordi. Che confusione di immagini, di parole, di suoni c’è nella sua testa! Chiude gli occhi e si fa un sorriso. Da fuori non si vede, forse sembra una smorfia, ma lei si è fatta un sorriso.
C’è un grande spazio bianco davanti a lei. Lo deve riempire . Ci mette le cose importanti della sua vita, i ricordi tristi, le giornate di gioia, gli affetti, i desideri, le speranze, tutto e poi…. Sarà come vuole Dio!

lunedì 12 gennaio 2009

Chi siamo?

Chi siamo?

Noi sessantenni, quasi sessantenni ed ultra sessantenni, chi siamo?
Siamo quelli che hanno vissuto in pieno la seconda metà del secolo scorso, siamo la generazione di passaggio, siamo i pensionati , genitori, nonni, fedelmente maritati, siamo gli indignati, gli scontenti di come vanno le cose, siamo gli amanti dei pettegolezzi, dei “la gente dice…”, siamo anche quelli delle abbuffate, tanto ormai che ci resta, dei villini al mare , delle case piene di oggetti inutili…..
I nostri genitori , usciti all’aria aperta dopo essere rimasti per tanto tempo tra le grinfie di un regime e di una guerra, ci hanno tirato su con pane ,obblighi e divieti.
Questo non si può fare perché cosa direbbe la gente, attenzione a non farsi sparlare, bisogna seguire le tradizioni, guai ad uscire fuori dal seminato, la scuola è una cosa seria, i professori sono degni di rispetto , i giovani debbono sempre ubbidire ai genitori , la famiglia è sacra, le feste si fanno sempre in famiglia, i divertimenti una volta ogni tanto…..La nostra generazione è quella dei gelatini da poche lire da mangiare in piazza , del panino con la mortadella da portare a scuola , dei grembiuli neri e i calzini corti per le ragazze, della passeggiata facendo il giro del centro storico e che altro? Fatemi ricordare....

venerdì 2 gennaio 2009

INQUIETUDINI

Presa da un improvviso attacco d’ansia cercavo un modo per distrarmi e portare la mente fuori dalla situazione contingente in cui mi trovavo invischiata. Avvertivo fortemente il bisogno di evadere dal flusso in cui mi sentivo immersa , volevo sperimentare altre possibilità, riflettere su cose diverse, magari quelle che mi avevano interessato negli anni di studio e di lavoro.
Forse, pensavo, potrei trovare rifugio nel passato, nei fogli di carta, nei quaderni, nelle vecchie agende che ho lasciato per anni ad ammuffire negli scaffali della libreria!
Così, dopo aver tirato fuori mucchi e mucchi di carta , mi ritrovai fra le mani una parte della mia vita. Programmazioni scolastiche, giudizi su alunni, recensioni di libri da adottare nella scuola, foto-ricordo di gite scolastiche. Il mio passato di insegnante emergeva dall’angolo buio in cui l’avevo relegato da qualche tempo insieme ai ricordi di come ero allora, come pensavo, cosa facevo per vivere le mie affannose giornate.
Cominciai a leggere qualche foglio, lo giravo e rigiravo fra le mani, ma lo trovai assolutamente privo di interesse. Nessun brivido, nessuna sensazione di improvvisa riscoperta, solo parole che ormai fanno parte di un’altra epoca, parole superate e inattuali, frasi stupide ed inconcludenti.
E dire che ci avevo lavorato tanto!
La mia mente era alla ricerca di garanzie, sicurezze, assicurazioni ed aveva trovato solo carta straccia !
Quello che dovevo fare era molto semplice. Prendere il mucchio di carte del mio passato di insegnante e buttarlo giù nel secchio giallo della raccolta differenziata. Un colpo secco e via. Buttando nel cestino trent’anni di insegnamento, mi sarei sentita più leggera.
Il mio presente oggi è quello di pensionata, nuovi interessi, l’uso del computer che mi attrae moltissimo, la lettura di libri interessanti, ma c’è soprattutto l’angoscia di dover vivere accanto a mia madre, gravemente malata di Alzheimer. Gli ultimi giorni della sua malattia li sento ben pesanti sulle spalle . Avverto costantemente i suoi odori, sento i suoi flebili lamenti e presa dalle necessità del momento, non riesco ad interessarmi più al mio passato, avverto anzi il bisogno di disfarmene una volta per tutte.
In fondo, nel ripiano più basso della libreria, tocco un ultimo pacco di carta.<<>> esclamo, quasi meravigliata che siano ancora riposte nel classificatore dove le ho sistemate alcuni anni addietro, in un periodo di sosta prolungata. Avevo una brutta flebite e, costretta al riposo, avevo impiegato il tempo a catalogare le lettere d’amore che io e mio marito ci eravamo scambiati durante la nostra giovinezza mettendole in ordine di tempo.
Sono passati più di venti anni e le lettere sono sempre rimaste nello stesso posto, in attesa di essere distrutte, bruciate, spazzate via dall’arrivo inesorabile della maturità e della vecchiaia.
Le lettere sono la mia giovinezza, la nostra giovinezza,e se prima ho avuto delle titubanze a buttar via il passato di insegnante, ora la cosa diventa un po’ più difficile. Si tratta di qualcosa che non riguarda solo la mia persona ma il passato di una coppia .
Le parole scritte in quei fogli ,i desideri, le speranze cominciano a venire fuori dalla carta. Intuisco che hanno preso vita , sono diventati tempo vissuto , casa, figli, famiglia.
Ne prendo qualcuna fra le mani e mi rendo conto che le frasi sono monotone e ripetitive, abbracci e baci a non finire, non ce la faccio a vivere senza di te, vorrei che fossi qui con me e roba simile.
Ma questi fogli di carta non possono divenire spazzatura differenziata perché trasudano amore. Solo a toccarli avverto il sentimento di cui sono intrisi, come un fiore esile sullo stelo ma dalle radici ben salde, solide, ben abbarbicate nel terreno.
Cosa era all’inizio? Era attrazione, desiderio, sentimento indefinibile, vago e sfuggevole, era un palloncino pieno d’aria da riempire tanto da renderlo solido . Non c’erano cose all’inizio, solo amore. E l’amore attendeva di dar vita alle cose.
Quando il desiderio diventò realtà, neanche ce ne accorgemmo, presi come eravamo a vivere ed a goderci ogni piccolo istante della nostra vita insieme.
La sola cosa che possedevamo da giovani era l’amore, l’amore e un vecchio letto di nichel. Ce lo regalò nonno Saverio, alla bella età di 97 anni, il suo letto matrimoniale.
Non era un letto completo, erano solo le sponde che lo avevano accompagnato nel corso della vita, per ben due matrimoni.
Il vecchio nonno aveva detto al nipote:<<>>
Non sapevamo dove conservarlo ed a me non interessava per niente un letto antico.
Mi piacevano i mobili moderni, laccati di bianco, funzionali e pratici. Che me ne faccio di questo vecchio catorcio? Mio padre però lo volle portare a casa perché, non si sa mai, magari un giorno avrebbe potuto essere utilizzato. Lo collocò in terrazza, all’acqua, al sole ed al vento.
Diventò l’unico nostro bene, non avevamo altro.
Quando decisi che, tutto sommato, il letto antico poteva anche andare bene, Saverio iniziò a ricostruirlo. Lucida, salda, smeriglia, a poco a poco il letto si rinnovò e riprese a vivere solo per noi.
Letto, mobili, casa, l’amore si solidifica attorno a noi.
Brucerò queste inutili lettere. Non voglio che qualcuno le legga , un giorno, quando non ci saremo più.
Avevo venti anni allora e la mia vita era solo attesa. Ora, a sessanta, ho finito di attendere.

Mi sento come invischiata nella trappola della malattia di cui soffre mia madre.
Continuo a ripetere a me stessa che la mia vita è proprio davanti a me, con le finestre e porte ben spalancate, senza lucchetti, chiavistelli e chiusure mentre io, ostinatamente, sto accettando di intristire in un mondo chiuso, incrostato dalla muffa di tante, troppe rinunce.
Mi manca però il coraggio di forzare i limiti di questa triste realtà che tende ad imprigionarmi con i suoi orizzonti soffocanti ed a ricattarmi con la complicità della mia debolezza.
Non riesco più a sentire il mistero della mia vita , non so come agitarla , darle del movimento e rimettermi in piedi senza trovare comodo il rifugio in cui mi sono rintanata , la cella in cui mi sono rinchiusa come prigioniera.
Più che di vita mi capita di pensare alla morte. Rivedo il passato come un film e mi sento diversa, estranea alla me stessa di qualche tempo prima, piccola ed indifesa di fronte allo scorrere del tempo.
Come ho fatto ad arrivare a questo punto della storia, cosa capivo prima e cosa sono in grado di capire adesso e perché tutto mi sembra così stupidamente insignificante, tranne questo odore di morte che è l’unica cosa tangibile del mio fluttuante presente?
Le lettere le ho sparse un po’ dappertutto. Fogli ingialliti mostrano parole ormai inutili.
Avverto forte il bisogno di cambiare aria.
Il mondo che mi si presenta davanti agli occhi, quando mi chiudo la porta alle spalle,ha un gradevole odore di vernice fresca.
Non so se cominciare a girovagare per le strade del centro alla ricerca di
distrazione magari guardando le vetrine dei negozi o se prendere la strada
del lungomare per godere della brezza marina.
Alla fine decido di scendere la scalinata che dalla piazza principale porta al lungomare.
La luce del tramonto si posa uniformemente in questa parte della città ed illumina il mare con scie colorate di luce rossastra.
Questa è la Mazara da cartolina, la Mazara che incanta per il suo incredibile splendore naturale.
Guardo con curiosità alcuni giovani che corrono sudati e quasi quasi vengo presa dalla frenesia di correre come loro, muovermi in fretta in quella tranquilla atmosfera che la natura vuole offrirmi.
Sul sedile di marmo due ragazzi si abbracciano teneramente e ridono felici.
Più in giù, nello spiazzo del piazzale, vicino al porto, alcuni slavi stanno montando le baracche del mercatino con la merce messa in bella vista su tavole di legno. Collanine colorate, orecchini, custodie per telefonini, soprammobili in finto legno, piccoli oggetti inutili di cui amiamo riempire la nostra casa. Osservo tutto con interesse e sorrido al proprietario dei piccoli tesori.
Un turista si diverte a riprendere il mare e mostra sorridendo alla sua compagna le inquadrature più belle che è riuscito a fare .
Il bollore della mia inquietudine va scemando, mi rimane un sentimento di attesa , attesa di qualcosa che stento ad individuare.
Mi sembra di essere un cappello appeso nell’attaccapanni. Arriverà prima o poi il proprietario della mia vita e dovrò rendere conto per filo e per segno di come ho speso i miei talenti.
Le barche dei pescatori ritornano lentamente al porto . Gruppi di uomini aspettano sulla banchina l’arrivo del pesce fresco e parlano animatamente fra loro. Gesticolano ed usano una lingua per me sconosciuta, la lingua araba, fatta di frasi lunghe che rimangono come strozzate in gola e parole dal suono gutturale o aspirato.
Mi sento pervasa da una vitalità che mi rigenera completamente.
La vastità del paesaggio che mi sta attorno mi sbigottisce e mi rasserena. Il sole, l’aria e il mare li avverto come un dono colmo di sensazioni. Comincio a sperimentare l’intensità e la bellezza dell’essere nel momento.
Poco fa credevo di essere una povera vittima maltrattata dal “destino” della vita, ma ora scopro di avere risorse sconosciute, emerse dal mio intimo quasi come frutto del dolore e della sofferenza.
Ero rimasta imprigionata senza nemmeno accorgermene e, osservando l’ombra delle palme che si allungano verso il mare, cerco di tirarmi fuori dalle mie catacombe mentali per godere quello che più conta, il mio momento presente.