martedì 22 aprile 2008

IO e LA SCUOLA


Nel sogno mi vedevo in un grande edificio dai lunghi corridoi deserti e silenziosi, completamente privi di suppellettili, una scuola non scuola senza alunni né insegnanti, un ambiente asettico e privo di vita. Giravo per i corridoi con i libri legati da un elastico ed un registro in mano, alla ricerca di una aula dove recarmi. Consapevole di avere già finito la mia carriera di insegnante e di essere in pensione, ma ancora nelle vesti di alunna come lo ero stata tanti anni prima, non saprei dire se per punizione o premio, mi toccava di dover tornare a scuola.
In quale ruolo? Ero scolara o insegnante? Ero lì per apprendere o per comunicare ciò che avevo appreso?
Bidelli a cui chiedere l’ubicazione dell’aula non ce n’erano, vagavo per i lunghi corridoi un po’ stizzita e per nulla contenta di dover tornare a scuola dopo un dorato dolce far niente.
All’improvviso, in fondo allo sgabuzzino per le scope, individuavo la mia aula. Aprivo la porta con un certo timore, non mi sentivo più sicura di me e della mia capacità di stare con i giovani, riconoscevo però nel sogno il brusio dei ragazzi a cui le mie orecchie erano abituate, i rumori dei banchi smossi, le risate, gli intercalari in dialetto siciliano, “Ma chi sì scimunitu’? Chi dicisti? Chi aviamu a studiari stu jornu?” e, soprattutto, sentivo il suono della campanella che mi ha accompagnato per molto tempo della mia vita.
“Coraggio! - mi dissi – entra nella tana del lupo!” A questo punto mi svegliai e ringraziai il cielo che il mio fosse stato solo un sogno.
Avevo paura! avevo paura di fare una cosa che avevo fatto per anni, giorno dopo giorno; entrare in classe, trovare dei ragazzi che aspettano chiacchierando, sedermi fra i banchi o in cattedra ed immergermi nel clima scolastico.
Mio marito mi prese in giro quando ascoltò il mio sogno ma io capii che avrei dovuto tirar fuori dal cassetto della memoria i ricordi della mia vita svoltasi in gran parte in ambiente scolastico, dovevo affrontare le mie esperienze tirandole fuori dal limbo in cui le avevo nascoste, dovevo in qualche modo ripescarle e giudicarle.
In fondo - mi dicevo - non ho particolari nostalgie né risentimenti. Gli anni di studio e di carriera scolastica mi sono scivolati addosso come acqua che scorre veloce. Le tracce lasciate dallo scorrere degli anni sono, ahimé, ben visibili ed hanno contribuito a formare l’involucro del corpo entro cui mi trovo costretta, ma lo spirito, il mio spirito, è ben fuori da questo involucro, è libero di vagare nella vasta area della fantasia o di rinchiudersi come un riccio nel ricettacolo che ha voluto costruirsi.
A volte mi sono chiesta come fare per lasciare un mio ricordo ai posteri, come uscire dall’anonimato per dire: C’ero anch’io in quegli anni! C’ero, vivevo, sognavo, agivo, esattamente come i giovani e le donne di adesso, quelle che frequentano la scuola, che sono alle prese con i figli, con i familiari, con il lavoro, che cercano un’intesa con il coniuge o che, rifiutando di intendersi, tirano i loro remi in barca.
Non voglio essere congelata con le mie memorie. Mi piacerebbe tirarle fuori e farle rivivere, anche se non potrò mai parlare di esse in modo fedele e nitido, ma solo per il piacere di mostrare a me stessa ed agli altri che vivere in un certo modo in una terra come la Sicilia è stata e sarà una grossa scommessa e che la mia generazione, tutto sommato, può essere definita come una generazione di passaggio, di preparazione, di attesa di eventi, che poi sono proprio quelli di oggi.
Il mio rapporto con i libri è avvenuto molto presto. Seduta sulla scala di casa, cerco di decifrare gli scritti di un sillabario e chiedo alla mamma spiegazioni sui segni di scrittura. Ho poco più di tre anni e la mia curiosità del mondo comincia a mostrarsi.
Papà è orgoglioso di me e lo si vede abbondantemente nelle foto sbiadite dell’epoca. Un giovanotto che indossa ampi pantaloni e camicia a sbuffo dà la mano ad una bambina dal vestitino arricciato in vita e con tanti fiorellini sul capo.
Sono i tempi della ripresa dopo il duro periodo della guerra. Nella mia città c’è ancora molta povertà, ma la speranza che qualcosa sta per cambiare spinge la gente a cercare nuove vie di ripresa economica, nuovi traffici per i commerci e, soprattutto, si comincia ad intuire che la cultura può formare degli individui liberi e capaci di giudicare senza paraocchi.
La scuola, ancora rigidamente divisa in maschile e femminile, offre la possibilità di ripresa. Questo aveva intuito mia madre che ha speso tutta se stessa per far studiare i suoi figli.
Durante i miei tredici anni di vita, mi si materializzarono, senza che me ne rendessi conto, ben quattro fratelli; ad uno ad uno si univano al resto della famiglia e vi si insediavano in pianta stabile. Una cosa non avevo in comune con loro, ero più grande e femmina, mentre loro erano più piccoli, maschi e poco portati per la scuola.
Mi toccò fare da mamma, accudirli e seguirli negli studi, cosa che facevo anche volentieri, perché sin da piccola ho sentito mio il doppio ruolo dell’allieva e dell’insegnante.
Nella ricostruzione dei miei ricordi vedo un mondo scolastico lontano e privo di vita, un grosso edificio con tante bambine che indossano grembiuli neri, una maestra dai capelli brizzolati legati dietro a crocchia, anche lei con un grembiule lucido nero, banchi enormi tinti di grigio con davanti il buco per il calamaio e l’incavo per la penna con il pennino e tante ragazzette attorno a me pronte a proteggermi perché ero la più piccola di tutte loro.
Arrivavano a casa mia al mattino in quattro o cinque, aspettavano con pazienza che mia madre finisse di imboccarmi una poltiglia di pane e latte che io tenevo in bocca con disgusto senza riuscire a mandare giù i bocconi che lei, imperterrita, continuava a porgermi scendendo giù fino in fondo alle scale, mentre mi gridava di spirugliarmi, fare presto, inghiottire senza troppe storie, perché aveva gli altri bambini da accudire.
Ricordo ancora il sapore di quel pane e latte. In casa non avevamo caffè, cioccolata o altro che potessero correggere il sapore di quella pappetta bianca e quasi sempre fredda che ingoiavo come una medicina, una cosa che si doveva fare obbligatoriamente e senza tante storie. Ad ogni minima disattenzione da parte di mia madre, cercavo di nascondere il contenuto della poltiglia masticata e rimasticata tra le piante grasse poste sulla scala e sognavo un mondo senza pane e latte, un mondo di cioccolata, gelati e grosse caramelle alla frutta.
Quando dormivo dalla zia Nicoletta, il latte aveva il sapore del caffé d’orzo che la zia abbrustoliva in una grossa padella affumicata e che poi macinava con un vecchio ed annerito macinino da caffé. Ma era sempre un sapore più buono di quello del latte tutto bianco, dove la panna si appiccicava come un velo rugoso proprio sopra i pezzetti di pane duro, quasi sempre residui della cena precedente.
E dalla zia Nicoletta c’era pure la possibilità di avere dei biscottini mescolati al pane. Si chiamavano “pastini”, erano semplici biscotti quadrati da latte che si vendevano a peso, in cartocci di carta. La zia mi mandava a comprarli in un negozietto di alimentari proprio vicino a casa sua e mi raccomandava di stare ben attenta al peso perché la signora Maria aveva l’abitudine di imbrogliare la gente.
Alle elementari ci arrivai per caso un giorno di ottobre, quando già l’anno scolastico era iniziato ed io mi annoiavo sui gradini della scala e desideravo andare a scuola, una vera scuola e non quello stupido asilo che non aveva stimoli da offrirmi.
Avevo quasi cinque anni quando Elvira, figlia dell’ inquilina del pianterreno della nostra casa di corso Umberto, mi prese per mano e disse a mia madre che mi avrebbe accompagnata a scuola. “Signura Tina, - disse - iu portu la picciridda di lu diretturi e la fazzu leggiri. Viremu chi dici!”
Mia madre si mise a ridere, non credeva che una ragazzina potesse riuscire in quella che lei riteneva una impresa azzardata. Elvira aveva già finito la quinta elementare, si sentiva matura e pensava di conoscere bene la scuola e l’ambiente scolastico, mentre mia madre aveva una specie di soggezione delle persone che non conosceva, non voleva “levari lu cappeddu”, cioè disturbare nessuno.
Entrammo, io piccoletta ed Elvira che mi teneva per mano, nello studio del direttore Messina. Dal tavolo ingombro di libri e carte, il direttore prese un libro e mi disse di leggere; io ubbidii e lessi una intera pagina senza mai fermarmi ed anzi cercando di fare del mio meglio per dimostrare che capivo il contenuto del discorso.
A questo punto il direttore mi regalò dei confetti che erano lì sul tavolo, residuo di chissà quale matrimonio, poi chiamò una bidella e le disse di far venire in presidenza la maestra Pavia.
Mi fece ancora leggere davanti alla maestra poi le disse di portarmi con lei nella sua classe. La maestra Pavia non avrebbe voluto. Questa bambina è troppo piccola e mi darà dei problemi, pensava, ma non osò contestare le parole del suo direttore, mi prese per mano e mi portò con lei. Insegnava in una seconda classe ed io, rispetto alle ragazzine di sette anni che erano perfettamente scolarizzate e sapevano cosa vuol dire frequentare la scuola, ero uno scricciolo. Se non va bene, glielo dico subito, pensò. E’ una bambina da asilo, non può rimanere in seconda.
Invece ci rimasi, accolta con entusiasmo dalle compagne che, vedendomi piccola ed indifesa, decisero di proteggermi e curarmi.
Il sapore del pane e latte mangiato prima di recarmi a scuola, le compagne di scuola che attendevano in strada, gli inquilini della casa della nonna che abitavano nella nostra stessa casa e condividevano con noi la scala, anzi abitavano la scala, vista come luogo di ritrovo soprattutto d’estate, quando ci si sedeva per trovare un po’ di fresco e si aspettava di riempire l’acqua nella fontanella che stava nell’entrata, i miei perché, le mie attese, i miei pochi giochi di bambina che non sa che farsene delle bambole, considerate inutili e senza vita e cerca invece altre risposte nel mondo dei libri e degli adulti, è questa la mia infanzia.
Leggevo molto, ma fuori della scuola. Presi l’abitudine, quando ero ancora molto piccola, potevo avere sei o sette anni, di recarmi presso la Biblioteca comunale per chiedere in prestito dei libri adatti alla mia età. Non ricordo chi mi spinse a fare questo, forse qualche vicino di casa o la maestra, qualche grande certamente dovette accompagnarmi per la prima volta nel grande edificio dei Cavalieri di Malta dove era ubicata la biblioteca cittadina. Da sola attraversavo il Corso Umberto dove abitavo, tagliavo diagonalmente piazza Mokarta e poi su fino al maestoso palazzo, costeggiando la villa comunale.
Salivo le grandi scale e dopo aver bussato, aprivo timorosa la grande porta marrone della stanza dove era situata la biblioteca. In fondo, dietro ad un lunghissimo tavolo rettangolare, in mezzo a pile di libri e giornali ancora piegati con l’etichetta appiccicata sopra, c’era la signorina La Malfa.
Piccola, con grossi occhiali da miope e con l’aria seria della studiosa che conosce tante cose perché è in stretto contatto con il Sapere , la signorina La Malfa mi accoglieva come una persona adulta. Dall’altra parte del tavolo, su cui arrivavo a malapena, con un filo di voce dicevo: “Vorrei qualche libro da leggere.” Lei chiedeva allora, a me bambinetta inesperta di tutto, se avevo idea di cosa leggere ed io rispondevo che volevo vedere le copertine dei libri.
Mi teneva un po’ sulle spine la signorina La Malfa, spesso mi lasciava là ad aspettare che finisse i suoi lavori, là davanti al suo tavolo, in attesa. Quando finalmente si decideva a chiudere l’ultimo libro che stava registrando, trotterellava fino a me con l’aria di chi viene distolta per capriccio dal compiere un lavoro serio ed importante, mi veniva accanto e mormorava: “Avanti, andiamo a prendere questi libri!”
Era tanto allora il mio disagio che desideravo non essere mai andata fin lì, ma la mia voglia di tuffarmi nel mondo incantato della lettura mi faceva superare ogni ostacolo ed allora le andavo dietro seguendo i suoi passettini e guardandomi intorno con un muto ossequio al mondo della cultura che lei si accingeva a dischiudermi. Superavamo il corridoio della storia, quello della letteratura, della scienza, e finalmente mi conduceva nel mio regno, quello dei libri per ragazzi. Sceglieva la chiave giusta da un enorme mazzo che teneva nella tasca del grembiule nero (Chissà perché allora le donne avevano tutte grembiuli neri!) ed apriva finalmente i lucchetti degli scaffali di ferro dove c’era un mondo incantato tutto da scoprire. Mi perdevo dietro i titoli dei libri: La piccola pattinatrice, La piccola fioraia, La piccola Cenerentola, La principessa sul pisello…. Tutto serviva a solleticare la mia fantasia, sognavo principi azzurri e fate turchine. La signorina mi consigliava di leggere questo o quel libro e mi faceva apporre la firma per esteso nei suoi grossi registri.
Se chiudo gli occhi riesco ancora ad avvertire quel forte odore di polvere che formava un tutt’uno con la signorina La Malfa, mentre lei, la signorina, non era per me una persona vera, ma un arredo di quell’enorme stanza, era un libro antico, un giornale, un bollettino. Non ho mai capito se allora era giovane o già vecchia, se aveva una sua vita o se rimaneva sempre là, con i libri e le riviste da mettere a posto, con il suo piccolo passo felpato e con la mano sulla bocca per farti fare silenzio.
Di libri ne ho letti tanti durante la mia infanzia e continuo a leggerne ancora, desiderosa di scoprire il lato fantastico della vita, la parte nascosta dell’essere umano che si inventa delle storie forse per fuggire dalla mediocre realtà.
Cos’è la cultura? Come si crea la cultura di una persona? Quanto peso riescono ad avere le attitudini personali, l’ambiente familiare, la scuola e tutto quanto ci circonda nel preciso momento storico della nostra crescita?
Se fossi nata alcuni anni prima sarei certamente cresciuta in modo diverso, avrei osannato il fascismo e avrei subito la guerra, qualche anno più tardi ed avrei goduto i privilegi del mondo computerizzato, avrei avuto una educazione più aperta e meno rigida di quella che mi sono ritrovata a subire. Ognuno ha la possibilità di godere il momento presente nel contesto in cui nasce e penso che, in qualsiasi situazione veniamo a trovarci, quello che conta è lo spirito con cui si affrontano le situazioni, l’amore per la vita, il desiderio di fraternizzare con quelli che stanno vivendo l’avventura insieme a noi.

Stavo per finire le elementari quando mia madre, parlando con una cugina maestra, seppe che non potevo sostenere gli esami di ammissione per la scuola media perché non avevo l’età. Occorreva infatti aver compiuto i dieci anni per poter frequentare le medie.
Per la prima volta nella sua vita mia madre abbandonò la sua caratteristica timidezza nei confronti delle persone di cultura e decise di andare a trovare a casa la Preside La Marca.
Era costei una istituzione nella nostra città. Piccola e grassa, incuteva timore solo a guardarla, figuriamoci poi se si metteva a gridare! Tremavano tutti, alunni, professori, bidelli. Bastava vederla spuntare da lontano per avere paura! “Signura,- disse a mia madre- la facissi iucari cu li bamboli, la picciridda!”
Così, invece di farmi giocare con le bambole, che proprio non mi piacevano, fu presa la decisione di farmi frequentare un altro tipo di scuola, l’avviamento professionale.
Non presi molto sul serio questo tipo di scuola, giocavo sui banchi e mi distraevo volutamente, mentre nel pomeriggio pensavo a prepararmi per sostenere l’esame di ammissione alla scuola media.

Il Collegio era, e rimane ancora, uno dei più belli edifici della città. Costruito dai Gesuiti in una piazza del centro storico di Mazara, univa al fascino del passato il gradevole passaggio delle giovani vite che si andavano formando fra le sue solide mura. Un cortile interno all’aperto e tante aule sotto i porticati , dove si correva, si faceva la ricreazione, si giocava, fino a quando non sentivamo tuonare la voce della Preside.
Il mio ingresso alle medie fu per i miei genitori come l’ingresso alla Università. Sentivo su di me gli occhi di mia madre orgogliosa di avere una figlia che studiava il latino, l’inglese, tutte cose che lei sconosceva!
“Siti granni, siti granni, ormai!”- ci disse la mamma di Pasana, una compagnetta di scuola dal nome complicato, la mattina del primo giorno di scuola. “Sono grande” - mi continuavo a ripetere da sola quando vedevo che mia madre aveva poco tempo da dedicarmi. “Tu si’ granni ! – mi diceva la mamma quando mi affibbiava i miei fratelli e mi diceva di farli studiare.
Per fortuna, avevo qualche compagna di scuola su cui fare affidamento. Caterina veniva prestissimo a casa mia dopo la scuola, mi aiutava a seguire i compiti dei miei fratelli, poi prendevamo per mano il piccoletto ed andavamo in giro per le vie della città.
La professoressa di lettere, carica di libri e registri, con i capelli raccolti a treccia appuntati dietro, vestita quasi sempre di grigio e di scuro, diritta, impettita ,ben consapevole del suo importante ruolo di insegnante, arrivava nella piazza dove noi ragazzine chiacchieravamo aspettandola e ripassando gli ultimi argomenti delle lezioni. Ripetevamo a memoria le poesie che lei ci aveva assegnato e parteggiavamo per i personaggi dell’Iliade, Ettore, Achille, il povero Patroclo…
Non protestavamo per i troppi compiti, gli interminabili esercizi di analisi logica ci servivano per stare insieme e chiacchierare, scrivevamo pagine e pagine di esercizi, nome, genere, numero e caso. Il latino diveniva la naturale conseguenza di quelle lunghe esercitazioni grammaticali che ci allenavano a comprendere la struttura del discorso.
Adolescenti si è tutto o niente, ci si sente padroni del mondo o umili schiavi, si è distratti, ansiosi, protesi verso un futuro lontano. Cosa faremo? come si svolgerà la nostra vita?
Erano tempi di ripresa economica, di novità. Volevamo conoscere altre storie, altre situazioni ambientali e non restare legate al nostro piccolo mondo siciliano in cui ci sentivamo un po’ imbrigliate. Chi andava al Nord, magari per una semplice gita, raccontava situazioni fantastiche, c’era più libertà, i ragazzi e le ragazze uscivano insieme la sera, andavano a ballare senza i genitori, si divertivano, e noi qui su e giù per il corso a gettare qualche occhiata ai ragazzi ed a sognare avventure impossibili.
Un giorno mia madre mi portò in casa di una signorina che faceva parte di quel mondo di cultura da lei ammirato tanto e che scriveva poesie; mi costrinse a leggere una poesiola che avevo scritto in occasione della morte della nonna. Era una poesia con le rime, di tipo pascoliano, che faceva “oh, nonna, nonna raccontami ancora le novelle…”; un po’ come nella “Cavallina storna”, quando la madre del poeta interroga la cavallina sulla fine del marito, io interrogavo il cielo sul perché la nonna era morta così prematuramente. La mamma era orgogliosa della mia vena poetica ed ogni tanto mi chiedeva :poesie ne scrivi più?
La signorina Signorino, che viveva da sola in una casa proprio di fronte alla mia, sempre vestita di scuro per non so quale lutto, piccola di statura con capelli lunghi fino al collo di un colore indefinibile ed un incredibile naso che finiva a punta e le dava un aspetto da strega cattiva, mi sorrise mostrando una bocca sdentata e gengive rossastre mentre io, al culmine dell’imbarazzo, fui quasi costretta a leggere la mia poesia. Capì certamente che avevo voluto emulare qualche poeta studiato a scuola ma mi incoraggiò lo stesso a continuare a scrivere.
Lei si riteneva una brava poetessa e fu con orgoglio e commozione che volle mostrarmi due grossi quaderni dalla copertina nera su cui erano scritte a mano le sue poesie .
Ci fu per me anche una tentazione religiosa. In un periodo di attesa, quando tutto attorno a me sembrava essere una preparazione del futuro, cercavo la mia strada fra le poche cose che potevo aver modo di conoscere e di assaporare. Frequentavo la chiesa ed ero iscritta all’Azione Cattolica, ascoltavo convinta le lezioni di catechismo ed amavo fare gli esercizi spirituali, che mi davano modo di riflettere e scrivere dei pensieri sul mio diario.
La chiesa mi dava sicurezza, il silenzio della grande navata centrale della nostra Cattedrale mi faceva sentire bene e poi l’odore d’incenso, i canti alla Madonna, le lunghe recite di rosari, mi procuravano delle belle sensazioni di pace. Dicevo alle mie compagne di aver visto un personaggio enorme, forse Dio, che scrutava dalla cupola interna, ma nessuno mi prestava attenzione.
Fui molto impressionata dal fatto che una giovane insegnante di catechismo, ad un certo punto della sua vita, volle andare a chiudersi come monaca di clausura nella chiesa di San Michele. La signorina Passalacqua scomparve dalla circolazione. Chiusa nel convento, pregava e faceva dolci con le sue consorelle, “i muccunetti”, la cui ricetta è ancora un segreto delle suore. Ma chi glielo aveva fatto fare? E se anch’io facessi così? mi dissi una volta, ma solo una volta, perché questo tipo di vocazione non faceva parte della mia natura.
A me piaceva l’amore e la famiglia, guardavo i ragazzi e mi piaceva molto essere ammirata. E poi, notavo, non ho voglia di divenire una signorina mummificata come quelle che bazzicano troppo la chiesa. Io desidero vivere e godere tutti i momenti della mia vita, uscire da questo ambiente siciliano retrogrado e provinciale, conoscere altre realtà stimolanti e, soprattutto, trovare un lavoro che possa rendermi indipendente economicamente.
La scuola poteva darmi la possibilità di realizzare i miei sogni.
Giocavo sotto i banchi con minuscole carte da gioco e ridevo per nulla nella classe mista ginnasiale dove la professoressa di latino e greco se ne stava sempre seduta in cattedra senza mai fare una scorribanda fra i nostri banchi.
C’era una punta di cattiveria in noi ragazzi quando parlavamo della nostra insegnante, soprattutto per via del suo aspetto pesante, tutto d’un pezzo, come in alto così in basso, e per i suoi capelli diritti di un colore grigio - biancastro, tagliati con una tazza, dicevamo.
Durante la ricreazione la osservavamo da lontano mentre tirava fuori da una grossa borsa un cartoccio con del pane e un pezzo di formaggio pecorino, faceva un po’ di spazio sul tavolo della sala professori allontanando da sé i registri ed i compiti in classe e si metteva a mangiare di gusto. Noi ragazzi, attenti alle sue mosse, la spiavamo dal corridoio e commentavamo ridendo i suoi gusti alimentari ed i suoi forti odori personali, che sapevano di sudore rappreso e di formaggio.
Siccome la signorina abitava vicino casa mia, io informavo i compagni sulle sue mosse e per un certo periodo la seguimmo da lontano, curiosi di carpire i suoi segreti e scoprire cosa facesse di pomeriggio. Non c’era verso, andava da casa in chiesa e dalla chiesa in casa.
Il preside del Liceo ginnasio “G.G. Adria” era un sacerdote, noto per la sua severità ed intransigenza.
Chiuso in una lunga tonaca nera, girava per i corridoi della scuola attento a mantenere l’ordine e la disciplina. Al mattino si faceva trovare in cima alla scalinata, diritto ed impettito, attento a controllare il nostro aspetto esteriore, i vestiti, i capelli, tutto doveva essere nella perfetta norma. Aveva fatto fare dei buchi nelle porte delle classi attraverso cui era solito spiare il comportamento di alunni e professori. Tutti temevano l’occhio del preside appiccicato a quel buco e nessuno voleva farsi trovare colpevole.
Il Liceo classico Gian Giacomo Adria era conosciuto in provincia per il tipo di educazione rigida e seria che vi veniva impartita e gli insegnanti erano soliti mantenersi staccati dagli alunni, quasi in un’altra dimensione. Un professore di greco trattava noi quattordicenni e quindicenni da adulti dandoci rigorosamente del lei ed ostentando dei modi affettati e cortesi che ci facevano tanto ridere. Aveva la mania del parlare forbito ed, entrando in classe, ci diceva subito: Comodi, comodi. Noi ripetevamo: comodino, comodino.. Era tutto un gioco di parole che ci faceva divertire tanto, con quel tipo di risatine leggere, per nulla maligne, fatte di parole sussurrate fra i banchi tra una traduzione e l’altra, mentre Natale fingeva di soffiare con forza il naso e, parandosi dietro un grosso fazzoletto, faceva delle gran pernacchie.
Nelle classi liceali un altro prete ci insegnava latino e greco. Con l’incoscienza dell’adolescenza facevamo i nostri comodi sotto i banchi e fingevamo di ascoltare lui che leggeva i suoi appunti, scritti fitti fitti su foglietti volanti.
“Si carta cadit…” - dicevamo ridendo, convinti che il professore non avrebbe avuto proprio niente da dire senza i suoi preziosissimi fogli .
Le nostre interrogazioni con questo professore erano scandite con grande regolarità e pertanto potevano essere tranquillamente programmate. Egli interrogava seguendo il calendario e dandoci la possibilità di segnare le date sui nostri quaderni in modo che potevamo conoscere in anticipo il giorno in cui saremmo stati interrogati e perfino i voti che ci assegnava.
“Professore, secondo lei, il destino esiste? “Gino, il ragazzo più bravo della classe, esordiva così quando arrivava in classe il professore di storia e filosofia e noi non avevamo studiato la lezione. Non ci interessava proprio nulla del destino e delle complessità dell’animo umano, volevamo soltanto far passare l’ora senza impegnarci con la mente.
Il professore parlava e parlava, mentre noi fingevamo di ascoltare interessati. Conoscevamo le paginette di lezione in modo meccanico senza osare mai fare agganci o riferimenti e senza capire i codici interni delle varie materie, né il loro possibile uso al di fuori della scuola. Imparavamo a memoria le date delle battaglie e ripetevamo a pappagallo i concetti di filosofia servendoci di frasi fatte ed espressioni usate dai professori.
La nostra era un’età in cui ci si appassiona alle piccole cose, in cui si crede di essere furbi, capaci di affrontare il mondo con il minimo sforzo, ma è anche l’età dei dubbi, delle incertezze, del non dormire la notte se qualcuno ci tratta male, l’età dei grandi entusiasmi e delle altrettanto grandi delusioni.
Quanto ho odiato il professore di fisica!
Entrava in classe portandosi dietro una grossa e tonda pancia, ci costringeva, anche d’inverno, a stare con la finestra aperta perché, diceva, un po’ d’aria fresca vale quanto una fetta di carne, e poi cominciava a scorrere il dito sul registro per le interrogazioni. Quando pronunciava il mio cognome, mi sentivo morire. Non riuscivo a soddisfare le sue aspettative perché mi ripeteva insistentemente che non capivo la fisica e per quanti sforzi avessi potuto fare, non avrei mai e poi mai potuto avere dei risultati soddisfacenti.
Era un periodo in cui il tempo passava lentamente, protesi verso il futuro ci sentivamo come passeggeri di un aereo in attesa di imbarco.
Quando arrivò il momento dell’esame di maturità, ci rendemmo conto di essere molto ignoranti e di non avere alcuna cognizione degli argomenti che fingevamo di avere studiato.
Studiai molto e finalmente mi resi conto di come i fatti storici erano tutti collegati fra loro e di come esistesse un legame fra le varie discipline che eravamo abituati a vedere in modo staccato, a seconda del professore che l’insegnava. Riuscii a cavarmela abbastanza bene con gli esami di maturità ma alcuni miei compagni furono costretti a ripetere l’anno.
Eravamo pronti per festeggiare. L ‘appuntamento con i compagni era in piazza, presso il bar che faceva il miglior gelato della città. I bocciati avevano preso la cosa con filosofia, dopotutto si trattava di guai rimediabili, un anno in più al Liceo e la possibilità di rimediare più tardi, quando saremmo stati tutti quanti alle prese con le materie universitarie.
Ridevamo contenti e facevamo progetti per il futuro. Finalmente andremo via da Mazara, ci dicevamo. Palermo, Bologna Firenze, grandi città, grandi ambizioni, pochi soldi e tanta voglia di riscatto.
Dall’altro lato della piazza vedemmo spuntare il professore di fisica. “Cosa ha da gesticolare tanto? – disse Enza, quella che aveva più feeling con il professore perché innamorata della fisica - sembra che voglia dirci qualcosa!” - “Lascialo perdere, - feci io - ormai di lui me ne frego!” - “E invece ci chiama, ci vuole dire qualcosa! – replicò Enza - io vado a vedere!”. Andammo incontro al professore e in quel preciso momento andammo incontro al primo grande dolore della nostra giovane vita. Il nostro compagno Simone era morto qualche ora prima in un gravissimo incidente. Voleva festeggiare la fine degli esami ed era salito in macchina con altri due ragazzi. Il guidatore, molto inesperto, aveva fatto una manovra sbagliata e la macchina era finita in un burrone, causando la morte del ragazzo che sedeva accanto all’autista .
Non riuscivamo a piangere, non sapevamo ancora piangere per seri motivi. Ricordavamo solo l’allegria di Simone, il suo sorriso, le sue battute di spirito, il suo primo innamoramento.
L’università ci sembrò allora l’unico modo per fuggire anche da questo brutto episodio, via dai ricordi, via dalle chiacchierate in piazza, lontani dal piccolo mondo che fino ad allora ci era sembrato piacevole.

Io e la scuola. Cosa è stato per me il periodo universitario?
A Firenze dove abitava una mia zia, con il libretto che denunciava le mie radici siciliane, ebbi modo di rendermi conto del profondo razzismo che esisteva nei riguardi dei meridionali, eravamo diversi dagli altri, non parlavamo bene, non conoscevamo i fatti politici o l’attualità del momento.
Durante il primo anno di università finii col sentirmi molto ma molto ignorante, ascoltavo le lezioni dei professori lontani anni luce dagli studenti e mi sentivo nessuno.
Ci fu un freddo cane quell’anno che vedeva il mio esordio all’università e la zia, che abitava in una caserma adibita ad abitazione con grandi stanze e solo due stufe a legna, fece di tutto per rendere piacevole il mio soggiorno a casa sua.
Io però cominciai a soffrire di nostalgia per la mia terra e per il ragazzo che mi aveva fatto battere il cuore. Capii che il nord non faceva per me e così, quando il professore di storia romana mi disse che le ragazze meridionali avevano ancora molto da imparare per diventare come tutte le altre, presi la decisione di ritornare in Sicilia.
Sentivo che non sarei potuta diventare spigliata e disinvolta come le ragazze del nord; le mie inclinazioni letterarie erano veramente ridicole al confronto degli altri studenti, avevo un certo bagaglio (si dice così?) culturale ma non bastava a fare di me una persona preparata a cavarsela in ambienti diversi da quelli in cui ero cresciuta .
Quelli erano gli anni dei fermenti universitari, delle assemblee, delle proteste, che io non capivo e per cui provavo solo indifferenza.
Ero più presa dal mio modo di essere, dai miei sentimenti, dal mio forte modo di interiorizzare ciò che leggevo, tanto che finivo con l’identificarmi con i poeti che in ogni tempo avevano cantato l’amore, quello con la A maiuscola, e non provavo interesse per ciò che mi portava a riflettere su cose diverse dal mio io più riposto.
Finita l’esperienza fiorentina, feci ritorno nella mia città natia e frequentai l’università a Palermo dove mi recavo in treno ogni volta che dovevo sostenere degli esami.
I tempi andavano cambiando, vivevamo un po’ meglio, qualche vestito in più e piccole soddisfazioni nella nostra vita di giovani di periferia.
Un pomeriggio, incontrando le mie vecchie compagne di scuola, ora colleghe universitarie, dissi loro che eravamo cresciute male senza impegni veri, senza interessi, pochi discorsi seri fra noi, solo chiacchiere stupide.
Cominciavo ad avvertire un forte desiderio di cambiamento, avrei voluto fare qualcosa per migliorare la situazione della mia città ma non avevo idea di cosa fare.
Dopo la laurea in lettere moderne, cominciai subito a cercare lavoro. L’insegnamento mi sembrò l’unica strada da percorrere.

Va bene, farò l’insegnante. Mi siederò in cattedra davanti a ragazzi, che poi sono un po’ come i miei fratelli che ho accudito da sempre, e spiegherò le lezioni.
Ma quali lezioni? In che cosa consiste il mio sapere? Per quanto cercassi nei più riposti angoli del cervello, non credevo di avere un sapere nascosto. La mia preparazione scolastica era tutta lì, conoscevo la grammatica italiana, sapevo formulare dei bei periodi scritti (a parlare me la sono sempre cavata a fatica), sapevo il latino, belle poesie a memoria (compresi interi canti della Divina Commedia che ci avevano fatto studiare all’Università), e avevo un po’ intuito il cammino dell’uomo attraverso i secoli, le scoperte, le religioni, le tradizioni popolari. Niente di più. Poteva bastare tutto questo a definirmi un’insegnante? Entro quale modello avrei potuto scivolare?
Più pensavo ai miei insegnanti però e più capivo che avrei dovuto comportarmi in modo completamente diverso. Si, ma come?
Mi rivedo giovane e sprovveduta affrontare, come supplente di pochi giorni, una classe di alunni di scuola media.
Soggezione e paura di fronte a ragazzini che chiacchierano incuranti di me e dei miei tentativi di instaurare un dialogo.
Non sapevo come si facesse ad insegnare o, per lo meno, a trasmettere delle conoscenze. La grossa preside La Marca tuonava ancora nei corridoi della nuova scuola ed io mi sentivo piccola ed inerme come gli scolari che parcheggiavano tra i banchi.
Sono impreparata a svolgere un lavoro così impegnativo, ho bisogno di conoscere strategie di lavoro, sapere cosa bisogna fare per far apprendere meglio le conoscenze agli alunni, mi piacerebbe imparare a fare capire ai ragazzi la bellezza del conoscere, continuavo a ripetermi.
Prima nomina a tempo indeterminato in un paesino della provincia di Parma, Borgo Val di Taro. Mi getto nella mischia, farò quello che posso.
Saverio, mio marito, che ha emigrato nella zona di Parma prima di me, mi spiana la strada facendomi conoscere la gente del posto e, soprattutto, altri insegnanti che possono aiutarmi ad inserirmi.
“Sei siciliana?” mi chiedono dopo avermi sentito parlare ed io odio il mio accento siculo e la mia aria così fortemente provinciale.
Vorrei essere emiliana anch’io, parlare come loro, pronunciare la C in modo dolce senza quella pesantezza che avverto ma che non so togliere dalla mia pronuncia. E poi quella brutta S che mi esce così male ed il verbo finale nelle frasi interrogative, perché continuo ad usarlo?
Cerco di accattivarmi le simpatie dei ragazzi emiliani parlando di me, della mia vita, so che gli alunni sono sempre tanto curiosi e vogliono conoscere tante cose dei loro insegnanti. Le ragazze, soprattutto, ti chiedono se hai un marito, da quanto tempo sei sposata e commentano fra loro la tua vita privata. Vogliono sapere se in Sicilia sono tutti mafiosi e se ho mai visto una lupara, mi chiedono del mare e se è vero che non ho mai visto la neve.
La neve non l’avevo mai vista e non immaginavo neppure che si potesse trascorrere l’inverno con tanto freddo e poi la primavera con piogge continue, lunghe, monotone, che mi davano l’impressione di essere sempre bagnata.

Settembre nero, lo definimmo allora. Il ministro ci costrinse a fare dei corsi abilitanti riparatori per dare una parvenza di legalità alla professione di insegnanti senza professionalità. Per la prima volta presi fra le mani qualche testo di pedagogia e psicologia e compresi che, per insegnare, occorreva anche porsi degli obiettivi a medio o lungo termine e, soprattutto, era necessario conoscere e capire i problemi dei ragazzi nel loro attuale momento di crescita.
Frequentando il corso sentii parlare in pubblico di politica, di Cuba, della Palestina e di Israele. Sentii parlare di ideologie politiche, delle teorie del comunismo, della sinistra e dei problemi della nostra società. L’ambiente siciliano in cui avevo trascorso l’infanzia e la giovinezza non mi aveva dato alcuna formazione, la famiglia e la scuola non avevano saputo darmi gli stimoli necessari, ero vissuta in un grosso pantano culturale. Ora ero libera di scegliere e di orientarmi verso l’indirizzo che più ritenevo giusto.
Cominciai a leggere libri e giornali che mi illustrassero meglio la società, ascoltavo i programmi seri che la televisione ci propinava ma non riuscii ad appassionarmi alla politica né a prendere sul serio qualche ideologia culturale.

Ci sono delle riflessioni, delle elaborazioni mentali che vengono fuori solo nelle prime ore dell’alba, quando ci troviamo tra il sonno ed il risveglio, piacevolmente intorpiditi e però pronti ad affrontare la giornata che si appresta ad arrivare. Tanta voglia di fare, sperimentare, cercare soluzioni alternative per rendere meno monotono il mio lavoro di insegnante. Aprivo gli occhi e sapevo esattamente cosa avrei dovuto fare quel giorno in classe con i miei alunni.
Ne parlavo con le occasionali compagne di viaggio. Ne parlavo con la Bianca,
(proprio così, con l’articolo davanti al nome, come si usa fare nel Nord) ne parlavo mentre macinavamo chilometri per recarci a scuola, lei, la Bianca, insegnante di matematica ed io di lettere.
Quanto mi sono stati utili i suoi consigli! Ed ora che non c’è più, a tanti anni di distanza, mi vengono in mente i suoi tentativi di provincializzarmi, di settentrionalizzarmi, ricordo le storie della gente del posto che mi raccontava con abbondanza di particolari, le sue battute spiritose e quel modo tutto suo di arrotare la erre, allungare il suono delle vocali, parlare sorridendo e sorridere parlando.
Io la ammiravo e cercavo di imitarla, anche per quanto riguardava la gestione della casa, che lei sapeva tenere sempre pulita ed in ordine, mai una cosa fuori posto e sì che andavo a trovarla a tutte le ore del giorno!
Abitavamo nello stesso condominio, io al primo piano e lei al secondo ed era un viavai continuo sia mio che suo, giù e su, “Maria Grazia, mi tieni il bambino? Mi presti una cipolla?” ed io: Bianca, come si prepara la pasta al forno? Bianca, domani mi dai un passaggio? Bianca, stasera stiamo insieme a guardare la televisione
“La mia amica siciliana!”, diceva lei, ed a me sarebbe piaciuto molto acquistare un po’ del suo “savoir fare”, parlare e muovermi come lei che si mostrava sicura di sé e capace di organizzare al meglio la sua famiglia.
Mi sentivo molto portata verso le persone sensibili che avevano problemi affettivi e che riuscivano a comunicare nei compiti scritti il loro malessere. Chissà cosa ne è stato di Maura, una ragazzina di Albareto, che sapeva raccontarmi i suoi problemi con un linguaggio semplice ed incisivo! E quel ragazzino che scriveva di avere portato le mucche al pascolo la mattina presto prima di venire a scuola! si addormentava con la testa sul banco, distrutto dalla fatica e mentre i compagni ridevano, io dicevo loro di non disturbarlo perché si vedeva che era proprio stanco!
La nostalgia per la nostra terra ebbe la meglio ancora una volta, chiedemmo il trasferimento e, sia io che Saverio, mio marito, fummo trasferiti in provincia di Trapani.
Tornammo a riappropriarci della nostra realtà, ritrovai l’ambiente a me più congeniale perché era quello che mi aveva visto crescere, ritrovai la scuola, quella della mia giovinezza, anche se adesso era tutto diverso perché io mi trovavo dall’altra parte della barricata ed ero una persona matura.
Forse il termine “maturo” non è quello giusto, non si è maturi a trenta anni, non si è ancora completamente maturi neanche a quaranta anni, forse a cinquanta o a sessanta, se tutto va bene…
Orario delle lezioni: dallo otto e trenta alle dodici e trenta con un buco a seconda ora .Ed il giorno libero? Mi piacerebbe il sabato, se possibile. “Preside, ho bisogno di un’ora di permesso per accompagnare il bambino dal dottore! “Oggi pomeriggio c’è la riunione per i libri di testo, ci sono gli scrutini, gli esami, c’è la consegna dei registri, l’incontro con i genitori, ci sono mille cose da fare, forse è meglio che rimaniamo a scuola pure di pomeriggio, organizziamo i corsi pomeridiani e facciamo fare ai ragazzi varie attività, si potrebbe fare teatro, musica, folk, organizziamo la gita, vediamo, dove si potrebbe andare quest’anno?

Io voglio essere dalla parte dei giovani. Mi inserisco nei gruppi di lavoro e li stimolo ad inventare qualcosa che entusiasmi me e loro. Forse è meglio che sia io la più entusiasta in modo da coinvolgerli nel mio gioco. Potremo inventare insieme una recita, una drammatizzazione per la festa di fine anno, scriviamo il testo insieme, aggiungiamo le battute spontanee che vengono fuori così, a caso, a seconda l’estro del momento, mettiamo insieme un bel copione e assegniamo le parti.
“La scuola deve divenire un sistema in cui vari elementi interagiscono fra di loro, ognuno con le proprie competenze e peculiarità, quindi le varie diversità di età, di cultura, di approccio, non devono rappresentare un problema, ma una opportunità di scambio e di arricchimento.” I Decreti Delegati del 1974 sono stati scritti apposta per me. Voglio fare l’insegnante che sta dalla parte dei giovani, perché in fondo mi sento giovane anch’io, mi entusiasmo facilmente e sto sempre lì a far funzionare il mio cervello per far nascere un minimo di interesse anche nei ragazzi.
La scuola media in cui mi trovo ad insegnare è una fucina di idee.
La Preside della scuola in cui mi trovo ad insegnare mostra di essere un’ottima promotrice di eventi scolastici, sempre pronta alla sperimentazione delle nuove proposte; pungola e spinge i giovani insegnanti a fare sempre di più, sempre di più, in un crescendo di iniziative che a volte finiscono con il distruggerci.
“Preside, non ce la faccio ad uscire di casa alle tre del pomeriggio! Ho i miei tempi di digestione da rispettare!”
“Preside, con la compresenza di tre insegnanti di diversa disciplina nella stessa classe, non finiamo con il togliere del tempo all’insegnamento della grammatica italiana?”
Seguendo le nuove indicazioni del ministro, i nostri alunni sono più bravi di prima o li mandiamo alle superiori da ignoranti, nel senso che sanno fare altre cose ma si trovano ad ignorare la struttura della lingua, fondamento primo del nostro essere cittadini italiani?
I dubbi sono tanti. I colleghi delle Superiori, che non hanno vissuto i nostri travagli, lamentano la scarsa preparazione degli allievi che arrivano dalla nostra super dinamica Scuola media.
Andrò a verificare. Chiedo di passare alle Superiori. Qui ci sono ancora vecchi programmi, si studia la letteratura, la storia proprio come ai miei tempi, si mettono i voti e non i giudizi a cui avevo cominciato ad abituarmi alle Medie.
“L’alunno, serio e responsabile, ha mostrato un certo interesse per la disciplina, ma non sempre si è impegnato con costanza .” Voleva dire che il ragazzo non aveva voluto proprio studiare; non si poteva dire però chiaramente che un alunno era svogliato ed allora si inventavano delle belle frasi ad effetto dove la cosa si dice e non si dice anche per accontentare i genitori che facevano parte del consiglio di classe dato che la sovranità era stata distribuita a docenti e famiglia.
Alle Superiori mi riabituo al voto. Se un alunno sa scrivere bene posso anche dare l’otto o il nove. Che soddisfazione!
Gli anni volano veloci, poi anche alle Superiori avvengono i cambiamenti che avevo sperimentato pienamente nella scuola media.
Si comincia con il cambiare il registro. Nuovi spazi, righe bianche per scrivere il giudizio sugli alunni, verbali, incontri per disciplina, parole, parole, progetti finanziati , soldi per chi dimostra di aver fatto qualcosa in più del dovuto, litigi fra colleghi sulla spartizione della torta e tanta insoddisfazione.
Cambiano gli esami di maturità. Non posso più sperare di essere chiamata a fare la commissaria d’esami in qualche città del Nord dove, tutto pagato, posso permettermi un mese di quasi vacanza.
I miei alunni, futuri Periti meccanici, si comportano proprio come me quando ero studente. Una lezioncina stiracchiata studiata solo per accontentare l’insegnante, poca voglia di impegnarsi, poca voglia di approfondire, altri interessi da coltivare!
Dal canto mio, cerco di fare del mio meglio per svolgere il programma di letteratura e di storia, i cui argomenti sono tutti scritti lì, sulla prima pagina del registro, insieme alla presentazione della classe ed agli obiettivi finali!
Non vedo via d’uscita; mi sento delusa e stritolata da un sistema che non aiuta i giovani a crescere nel migliore dei modi ma anzi li spinge a non fare, tanto al diploma finale ci arriveranno tutti, prima o poi!
Mi convinco che solo il pensionamento potrà rendermi libera.
Se la scuola mi ha imprigionato, oggi mi si presenta l’opportunità di dare un grosso contributo alla mia libertà. Posso sganciarmi da un modo di pensare che altri hanno costruito per me, posso vedere sgretolare le mie vecchie convinzioni, posso buttare giù e ricostruire, distruggere e rifare, aprire la mia mente verso nuove azzardate conoscenze e, soprattutto, posso scoprire tutte le mie più nascoste potenzialità.
Qualche alunno mi incontra e mi sorride, ricorda che è stato mio alunno nella tal classe, con quei compagni che… Si, dico, ricordo bene l’espressione del tuo viso quando mi dicevi che eri impreparato, ricordo le cose che avrei voluto farti capire e che non hai capito, ma in fondo cosa importa?
Oggi lavori, hai una tua famiglia, sei realizzato, cosa importa avere o no saputo cosa diceva Foscolo ed i suoi problemi con i sepolcri, se era giusto o non era giusto seppellire i morti in chiesa o fuori della chiesa?
Cosa importa avere capito le alleanze palesi della prima guerra mondiale se il mondo si regge e si è sempre retto su alleanze segrete, nascoste, su meccanismi così complicati e tortuosi ideati da personaggi che hanno creato la storia mettendola in piedi a loro piacimento?
Niente è mai come sembra a prima vista. Molto spesso le parole vengono usate per nascondere altro, sono dei paraventi, delle cortine fumogene, servono a dare l’ illusione che le cose si svolgono in un certo modo quando invece la realtà è ben diversa.
Ho seguito un lungo cammino durante il corso della mia vita solo per ritrovare me stessa.

I segreti del materasso rosa


Ero una bambina curiosa ed assetata di esperienze. Capivo che il mondo degli adulti era affascinante e complesso e mi piaceva osservarlo mentre con la fantasia amavo dare vita alle cose ed a costruire storie, nella convinzione che oggetti e persone avessero una loro vita nascosta tutta da scoprire.
Fu così che, per la mia insaziabile curiosità, riuscii a scoprire da bambina il grande segreto che aveva segnato la vita della cara zia Nicoletta, sorella della nonna.
Pochi conoscevano la verità, gli adulti a cui chiedevo qualcosa mi rispondevano in modo vago, la stessa zia che mi voleva molto bene accennava qualche mezza frase e poi taceva.
Zia Nicoletta aveva avuto due mariti, il primo era morto d’infarto in giovane età, il secondo era morto di vecchiaia. Anna, la figlia, era cresciuta con la madre ed il secondo marito, ma da chi era stata generata veramente ?
Sentivo che doveva esserci un segreto nascosto per il fatto che i cognomi dei componenti la famiglia erano tutti diversi fra loro, c’era qualcosa che non andava, ma come scoprire la verità?
Quando morì il secondo marito della zia , la mamma mi disse che non si poteva lasciare dormire da sola la povera zia Nicoletta e che sarebbe stato mio compito farle compagnia. Accettai con entusiasmo, pensando che mi era offerta l’occasione di carpire dei segreti e conoscere meglio la storia familiare, ammantata di mistero, della zia.
Così, a dieci anni, ogni pomeriggio salutavo la mamma ed i miei chiassosi fratellini ed entravo in un’altra orbita familiare, quella della zia.
Tutto era per me affascinante e misterioso. Mi attraeva soprattutto il frusciante lettone matrimoniale, in cui dormivo in compagnia della cara vecchietta.
Ricordo ancora la nera testata in ferro battuto decorata da conchiglie colorate, i quattro grossi sostegni di ferro detti “trispi”su cui poggiavano le tavole di legno ben allineate ed i due materassi di lana di colore rosa .
Io sprofondavo nel mio soffice materasso rosa e mi lasciavo voluttuosamente avvolgere come da un caldo abbraccio.
Avvertivo il forte profumo di pecora, di campi, di spighe di grano, profumo di lenzuola lavate a fatica nella grossa pila di pietra che troneggiava giù nell’entrata, proprio sotto alla scala e che era utilizzata dagli abitanti della casa. Profumo di” liscivia”, detersivo che costava poche lire e che era venduto in un sacchetto bianco di carta trasparente.
Profumo di saponetta Palmolive usata dalla zia, profumo di carbonella che serviva a riscaldare il letto, quando nelle sere d’inverno non avevamo il coraggio di infilarci sotto le fredde coperte ed aspettavamo che il grosso recipiente di rame detto” braciera “ con la carbonella accesa assolvesse il suo compito.
Il materasso era un mio grande e robusto amico pronto ad accogliermi con il suo tepore.
Dalla nicchia che pian piano costruivo con piccoli ed accorti movimenti del corpo, con la testa sprofondata nel cuscino di soffice lana, osservavo la zia che si svestiva e si rivestiva per la notte. Un rito segreto, semplici gesti di donna che non ha fretta, paga di quello che ha, contenta di avere trascorso una giornata tranquilla, senza stress, senza fatica. Sbottonava ad uno ad uno i bottoni del suo vestito nero e lentamente lo tirava su , attenta a non far sciogliere prima del tempo la sua crocchia di capelli tenuta su da forcine di tartaruga.
Guardavo con gli occhi semichiusi i suoi movimenti, la vedevo rivestirsi con una camicia da notte di grossa flanella, una sciarpa di lana, calze da notte e in testa una cuffia bianca che le dava un aspetto da monaca.
Poi sprofondava anche lei nel materasso rosa. Udivo il suo dimenarsi per conquistare la forma che più le si confaceva, il suo tirarsi dietro i lembi della pesante camicia poi un clic ed era buio.
La zia si muoveva ancora un pò, indugiava nell’attesa, dava modo di abituarmi al buio profondo ed ai pochi rumori che venivano dalla strada. Qualche passante che camminava lesto lasciava l’eco dei suoi tacchi di cuoio insieme ai colpi di tosse ed agli schiarimenti di voce, i gatti si rincorrevano, i cani mandavano suoni cupi e lontani, il mistero della notte prevaleva su ogni cosa.
Non era ancora l’ora di dormire. Accoccolata nel soffice abbraccio del materasso rosa aspettavo con impazienza che la zia mi parlasse della sua vita.
“Come si comportava con te lo zio Calogero?” chiedevo, pur conoscendo già la risposta. Con molta reticenza , lei accennava alla mancanza di rispetto nei suoi riguardi da parte del primo marito e poi passava subito a decantare le lodi di Antonio, il suo secondo consorte.
“Tua figlia Anna -allora ero pronta a replicare - è nata quando eri sposata con Calogero o con Antonio?” Silenzio, la zia non voleva rispondermi.
Non mi arrendevo ancora. Volevo sapere perché lo zio Calogero aveva un cognome che somigliava a quello di Anna ma non era proprio uguale , insistevo a chiedere ma non avevo mai risposte precise.
La zia mi diceva di pregare per le anime dei defunti, anche per quelli che si erano comportati male durante la loro vita, poi la sua voce a poco a poco perdeva tono, diventava un leggero bisbiglio e, all’ultimo amen, ero pronta ad addormentarmi serenamente nel piccolo abitacolo del materasso rosa.
Un giorno, rifacendo il letto insieme alla zia, mi accorsi che ad un certo punto del materasso, in un angolo laterale, si notava uno strano rigonfiamento, come se ci fossero delle carte fruscianti nascoste all’interno. Guardai bene e vidi che c’era una tasca interna di forma quadrangolare, dello stesso colore della stoffa del materasso, una tasca segreta chiusa da piccoli bottoni automatici.
Fui presa da una morbosa curiosità. Volevo scoprire i segreti del materasso rosa perchè ero sicura che nel suo interno avrei trovato la soluzione del mistero ed avrei potuto ricostruire la storia giovanile della zia; dovevo, con un pretesto, rimanere in casa da sola.
Un giorno, era il periodo pasquale ed in chiesa erano arrivati dei predicatori per celebrare la quaresima, dissi che avevo molti compiti da fare e non avrei potuto accompagnare in chiesa la zia, promisi che non avrei aperto la porta a nessuno e così fui libera di dedicarmi alla misteriosa ricerca.
Ricordo perfettamente come mi batteva forte il cuore quando sollevai coperte e lenzuola per arrivare alla tasca segreta del materasso rosa. Aprii i bottoncini ed infilai la mano nella tasca. Ne tirai fuori carte ingiallite, vecchie buste profumate, cartoline, foto, documenti, certificati medici.
Le lettere, tutte profumate e scritte da mano femminili, erano indirizzate al primo marito della zia, un signore dai baffi arricciati e dallo sguardo malizioso di cui trovai una vecchia ed ingiallita foto .
Erano lettere d’amore, parlavano di baci ardenti e di incontri di piacere. Non capivo esattamente tutto ma ebbi la conferma dei tradimenti dello zio Calogero e della mancanza di rispetto nei suoi riguardi di cui mi parlava spesso la zia. Poi lessi di un bambino che doveva nascere da lì a poco.
La donna della lettera voleva sapere come doveva comportarsi nel momento della nascita e se lui era disposto a prendere il bambino, dietro compenso di una certa somma di denaro. In un’altra lettera la stessa donna diceva che la bambina, la piccola Anna, era già nata ed occorrevano subito dei denari. Poi, in un bigliettino, era fissato un giorno per la consegna della piccola Anna, febbraio 1915; si diceva che “la picciridda” sarebbe stata portata a Mazara da una donna di fiducia. Trovai anche il certificato di battesimo della piccola Anna, che aveva un cognome leggermente diverso da quello di Calogero, (c’era una D al posto di due R)mentre la madre risultava ignota. Madrina della piccola era stata la zia Nicoletta.
Ecco scoperto il segreto della zia! La figlia non era sua, ma era stata acquistata dietro compenso dal suo primo marito, il quale però non aveva voluto dare il suo cognome per intero ma, chissà per quale motivo, aveva voluto modificarlo. La madre della piccola era anonima. Tra le carte trovai anche il certificato di morte per infarto di Calogero ed infine un nuovo certificato di matrimonio.
Qualcosa però mi diede modo di riflettere su un ulteriore mistero.
In un certificato medico si attestava in Nicoletta la presenza di una malattia infettiva trasmessa in seguito a rapporti sessuali, malattia molto grave che necessitava di un urgente intervento. Era troppo per le mie capacità di analisi e ragionamento! D’altra parte, avevo soddisfatto le mie curiosità e ricostruito, almeno in parte, la misteriosa storia della zia Nicoletta!
Mi affrettai a mettere tutto a posto ed a chiudere la tasca segreta nascosta nel materasso rosa.
La sera, quando andammo a dormire, guardai la zia con altri occhi. Il suo segreto la faceva diventare tenera e vulnerabile, piccola creatura che aveva lottato con donne fatali e mostruose e con mali incurabili e subdoli. Capii che la figlia, avuta dietro compenso di denaro, era stata accolta da lei con amore. Mi resi conto che l’amore permette il superamento di qualsiasi difficoltà e che la vita stessa è capace di risolvere situazioni che sembrano insanabili.
“Zia,- le dissi quella sera- vuoi bene alla zia Anna?” “Certo! - mi rispose - è mia figlia!”
Molti anni più tardi riuscii a conoscere per intero la storia della zia Nicoletta.
In quel periodo avevo chiesto inutilmente che fine avesse fatto il letto matrimoniale in cui avevo trascorso parte della mia adolescenza. La casa della zia era stata venduta, i vecchi mobili erano stati dati via o trasferiti a Palermo in casa della figlia,dove la zia Nicoletta si era trasferita.
Ero una giovane ancora molto curiosa, attratta dalle tradizioni popolari e sempre alla ricerca di vecchie credenze e storie del passato. Frequentavo a Palermo la facoltà di Lettere e per lunghi periodi soggiornavo in casa di Anna, figlia della zia Nicoletta.
Un giorno, eravamo sole in casa io e la vecchia zia, sentendo di aver ritrovato con lei la familiarità di tanti anni prima, le chiesi all’improvviso che fine avessero fatto le carte che erano custodite nella tasca interna del materasso rosa. La zia sobbalzò. Nessuno conosceva a fondo la verità , come facevo a sapere della tasca ricavata nel materasso? Poi sorrise perché mi conosceva bene e sapeva che non mi sfuggiva mai nulla. Mi rispose che aveva bruciato le vecchie carte alcuni anni prima, perché nessuno doveva sapere che Anna non era la sua vera figlia.
Si trattava di una storia lontana, qualcosa che non le apparteneva più ; mi fece giurare che non avrei raccontato mai a nessuno le cose che stava per dirmi perché sarebbe stato uno sgarbo nei confronti della figlia che, a tutti gli effetti, faceva parte della famiglia. Seduta su uno sgabellino ai suoi piedi, per molti pomeriggi, approfittando dell’assenza della zia Anna , mi fermavo ad ascoltare affascinata i suoi stralci di vita vissuta.

Agli inizi del ‘900, il giovane Calogero era un facoltoso commerciante . La sua bottega, situata nel centro storico di Mazara, era molto conosciuta in città e tanti erano i clienti che facevano la spesa e si fermavano a scambiare due chiacchiere con il proprietario del negozio. Grossi sacchi di caffè si trovavano all’entrata , bidoni pieni di olio, pasta, riso ed ogni bene di Dio. Gli affari prosperavano ed il giovane Calogero, dai modi signorili ed educati, faceva strage di cuori femminili. Il giovane commerciante aveva un solo difetto: amava le donne, proprio tutte, tanto che per soddisfare le sue insaziabili voglie aveva cominciato a frequentare dei locali un po’ strani, case appartate, dette “case chiuse”, come ce n’erano in città prima che una legge le togliesse di mezzo.
Calogero amava gli odori, i profumi, i tappeti, le decorazioni di questo tipo di locali e si divertiva a cambiare le ragazze ed a giocare con loro.
In seguito ad incontri di questo genere Calogero si prese una brutta malattia, “male francese”, così veniva chiamato nelle nostre zone.
Egli si fece curare da un amico dottore e non raccontò a nessuno cosa gli era capitato. Solo il dottore sapeva e proprio lui gli sconsigliò di sposarsi perché, con la sua brutta infezione, avrebbe rovinato qualche brava ragazza.
Calogero però non ascoltò il suo medico : voleva trovare una brava moglie ed accasarsi, anche per dare rispettabilità ai suoi affari.
In un periodo di stasi della malattia, mandò a chiamare donna Peppina. Era costei una sensale di matrimoni, una donna capace di trovare la moglie giusta a qualunque uomo,una comare chiacchierona e pettegola che sapeva sempre i fatti di tutti. Conosceva certamente la fama di dongiovanni di Calogero, era amica di alcune tenutarie di case di appuntamenti e le capitava spesso di vedere le ragazze affacciate alle finestre. Donna Peppina non aveva nulla da perdere a parlare con questo tipo di ragazze, era avanti con gli anni e nessuno avrebbe sparlato di lei.
Entrando ed uscendo dai cortili del centro storico ,recandosi a trovare le brave famiglie della città e chiacchierando con questo e con quello, aveva in mente ben chiara la situazione matrimoniale delle giovani e dei giovani mazaresi.
Era giunto il tempo di trovare un buon partito per Nicoletta, allora diciassettenne; brava ragazza, seria e timorata di Dio, sarebbe stata un’ottima moglie e madre. La mamma di Nicoletta gestiva un negozietto di alimentari, era vedova con tre figli, due femmine ed un maschio. Al figlio maschio, Andrea, di professione barbiere, capofamiglia dopo la morte del padre, toccava il compito di accasare le sorelle .
Un bravo giovane di nome Antonio, di professione agricoltore, aveva messo gli occhi addosso a Nicoletta ma, per timidezza, non trovava mai il coraggio di farsi avanti; aspettava di sistemare meglio le sue cose, c’erano i campi da arare, la semina, la raccolta. Per il matrimonio c’era tempo.
Calogero fu più lesto di Antonio. Disse alla sensale che voleva conoscere al più presto Nicoletta, poi andò a trovare Andrea nel suo salone di barbiere.
Il fratello di Nicoletta, tutto preso dalla sua responsabilità di accasare le due sorelle, si sentì onorato della richiesta di Calogero e, pur conoscendone la fama di dongiovanni, pensò che erano cose superabili e che Nicoletta certamente, con un marito commerciante, avrebbe fatto una vita da signora.
Nessuno chiese il parere di Nicoletta, segretamente innamorata di Antonio; i parenti decisero per lei. Ci sarebbe stato al più presto un fidanzamento ufficiale e sarebbero state celebrate le nozze entro tre mesi.
In città molti ricordarono per qualche tempo lo sfarzo di quel matrimonio, celebrato di notte, come si soleva fare. Un corteo di amici e parenti accompagnò in chiesa la sposa che dava il braccio al fratello Andrea, visibilmente emozionato.
Finita la cerimonia,al mattino presto, ci fu colazione di latte e biscotti, dolci, cannoli con la ricotta, ogni ben di Dio.
Antonio, l’innamorato segreto, quel giorno non andò in campagna a lavorare. Chiuso in casa, ascoltava le voci festose dei bambini che giocavano per strada e malediceva la sua timidezza e il suo senso del dovere. Nicoletta ora era chiusa in casa con quel volpone di Calogero mentre lui era rimasto da solo con i suoi sogni ed il suo stramaledetto bisogno di avere tutto a posto, prima di fare un passo decisivo.
Per tre giorni gli sposi rimasero chiusi in casa. La mamma di Nicoletta portava il pranzo e la cena , lasciava il fagotto nell’entrata ed andava via lesta lesta, non volendo disturbare gli sposi.
Nicoletta, che non aveva assolutamente idea della vita matrimoniale, perse la sua verginità ma, cosa per lei molto grave, perse anche la salute perché contrasse subito la brutta infezione di cui il marito era affetto.
Non volle più avere contatti con il marito. Tutta presa dai suoi problemi di salute, si coricava la sera nel nuovo lettone matrimoniale e si girava dall’altra parte .Calogero aveva fatto il furbo ed ora che si arrangiasse!
Quando la madre disse al figliolo Andrea che Nicoletta aveva problemi di salute, ci furono forti discussioni fra i due uomini. Calogero diceva di non sapere cosa fosse successo alla moglie, anzi era lei che si rifiutava di assolvere ai suoi obblighi matrimoniali. Andrea però lo afferrò per il colletto della camicia e gli disse che non doveva più permettersi di toccare sua sorella, anzi era suo obbligo accompagnarla dal dottore e farla curare!
Così Nicoletta dovette subire la grossa umiliazione dell’intervento all’utero. L’operazione fu fatta in casa, con la presenza dell’ostetrica di fiducia e del dottore che continuava a ripetere: “glielo avevo detto, glielo avevo detto!….”
Nicoletta, per un certo tempo, non ebbe più voglia di vivere. Odiava Calogero, lo spiava e cercava di conoscere le sue mosse, i suoi spostamenti, la vita insomma che l’uomo conduceva fuori casa tra il negozio, gli affari e gli incontri con altre donne .
In una tasca segreta ricavata all’interno di un materasso del letto matrimoniale aveva cominciato a nascondere alcune cose. Qualche soldo caduto dalle tasche dei pantaloni del marito, i biglietti delle rappresentazioni teatrali, le lettere, le cose un po’ dubbie che trovava in casa e che Calogero, sempre sicuro di sé, non si premurava neanche di fare sparire.
In quanto a lui, continuò a fare la vita di sempre. Bei vestiti,bastoni e cappelli, amicizie femminili ed incontri galanti erano il suo pane quotidiano.
Nicoletta sapeva e soffriva, si sentiva tradita come moglie e come donna. L’avevano dato in pasto al lupo ed il lupo non aveva avuto per lei il minimo rispetto. Leggeva le lettere ed i bigliettini profumati che altre donne inviavano al marito e pensava che prima o poi Dio l’avrebbe aiutata a risolvere i suoi problemi perché lei aveva sempre pregato ed il Signore sa come aiutare chi prega con cuore sincero.
La povera donna sentiva fortemente il desiderio di diventare mamma, soprattutto da quando aveva saputo che la sorella Francesca, sposa da pochi mesi, era in attesa del primo figlio. Lei non avrebbe potuto godere delle gioie della maternità per colpa di quell’uomo sporcaccione che le avevano fatto sposare!
Pensava e ripensava a come fare ad avere un figlio tutto per lei ed alla fine si convinse che avrebbe chiesto a Calogero di accontentarla.
Una mattina, prima che Calogero andasse via come al solito per ritornare a sera inoltrata, prese il coraggio a due mani e parlò al marito come non aveva mai fatto fino ad allora. Gli disse che lei voleva un figlio e che non importava il modo, che si arrangiasse a trovarlo con qualunque mezzo. Calogero cadde dalle nuvole . “A che ti serve un figlio? – le disse - non vedi che stai sempre male?”. Ma Nicoletta gli fece notare che, se stava male, era solo per colpa di lui e che un bambino sarebbe stata una benedizione per la loro famiglia. Solo così avrebbe potuto perdonarlo, gli disse ancora, altrimenti l’avrebbe maledetto in eterno.
Calogero allora si diede da fare per accontentare la giovane moglie. Venne a sapere, nella sua bottega, che una donna di Castelvetrano faceva dei figli quasi ogni anno e li vendeva al migliore offerente. Così cercò di contattare la donna e seppe che era già incinta e che stava aspettando delle offerte.
Le trattative si svolsero alla svelta; i soldi, almeno quella volta, furono utilizzati per una buona causa e soprattutto per mettere a tacere la famiglia di Nicoletta che parlava male di Calogero e non voleva più avere a che fare con lui. In quanto a Nicoletta, dopo aver saputo che c’era un bimbo in arrivo, cominciò a preparare il corredino ed a sistemare la casa, come se era lei la donna che doveva partorire. La sorella aveva intanto dato alla luce un bel maschietto e, guardando quell’esserino, pensava che anche per lei da lì a poco ci sarebbe stato il miracolo di una vita.
Un bel giorno,( Nicoletta non avrebbe mai dimenticato l’attesa di quel mese di novembre!) Calogero arrivò in casa sventolando un bigliettino. “E’ una fimmina ! nascì una fimminedda! “ gridava nel portone di casa.
Nicoletta fu presa da frenesia; la voleva subito in casa, la bambina era la sua. Pensava che la sorella avrebbe potuto allattarla lei, non c’era motivo di perdere tempo. Così, dopo le ultime consegne di denaro, una signora sconosciuta, infagottata in uno scialle nero, bussò alla porta di casa. Era mattino presto, tutti dormivano, solo Nicoletta era rimasta in attesa tutta la notte. Il tocco leggero alla porta la fece sobbalzare. Chiamò Calogero e si vestì alla svelta.“La picciridda!” diceva, “stannu purtannu la picciridda!” Calogero si tirò fuori con gli occhi ancora chiusi dall’incavo che aveva formato nel materasso durante la notte, prese i pantaloni dalla sedia, li infilò sui pesanti mutandoni di lana e corse ad aprire la porta.
Alla luce indistinta del giorno non ancora sorto, vide una donna avvolta in un grande scialle nero. Sotto lo scialle si muoveva un esserino avvolto in stracci, era la piccola Anna. Nicoletta la stappò di mano alla donna, la prese in braccio e le scoprì subito il viso. Era la figlia che aveva desiderato. Quando si accorse che la piccola era bagnata ed aveva le labbra nere per il freddo, non potè fare a meno di notare che purtroppo “Lu Signori duna lu pani a chi non havi li denti!”, come per dire che una madre snaturata aveva avuto il privilegio di avere quella bella bambina, mentre lei era rimasta priva della facoltà di procreare.
Quando, dopo qualche mese, la sorella perse il bambino a causa di una brutta polmonite, Nicoletta ebbe il coraggio di dire che non era una cosa tanto grave perché Francesca avrebbe potuto generare ancora altri figli, invece per lei la bambina era l’unica cosa bella della sua vita.
Da quel giorno in poi Calogero cambiò. Niente più uscite serali, niente più assenze da casa nei giorni festivi, sembrava che la “picciridda” fosse in grado di soddisfare in pieno tutti i suoi bisogni d’evasione.
Anna cresceva circondata da affetto,insieme alla zia Francesca che le aveva dato il suo latte fino a due anni, ai cuginetti che man mano si univano alla famiglia, agli zii ed alla vecchia nonna. Solo in pochi conoscevano la verità e gli adulti non la raccontavano di certo ai giovani.
Anna aveva cinque anni quando Calogero morì all’improvviso. “Per colpa dei suoi vizi!” disse Nicoletta. La morte fu vista come una conseguenza della vita disordinata che l’uomo aveva condotto fino ad allora.
Nicoletta non pianse per molto la morte del marito. Indossò vestiti neri, mise il lutto alla porta, ma solo per pochi mesi. Dentro di sé era contenta della fine di quel matrimonio, meno male che c’era la bambina!
Di nuovo toccò al fratello Andrea il compito di sistemare le cose di Nicoletta. Provvide a vendere il negozio, pagò i debiti e decise che la vedovanza non poteva durare per molto tempo, perché Calogero non era stato un bravo marito.
Era giunto per Antonio il momento di farsi avanti. Aveva aspettato di prendere moglie e sistemarsi perché Nicoletta era l’unica ragazza che aveva nella testa e per tanti anni ne aveva spiato l’ infelicità. Andrea fu contento della richiesta di matrimonio di quel bravo giovane che era Antonio, finalmente Nicoletta avrebbe avuto una persona sicura su cui contare.
Senza indugio, si decisero le nuove nozze.
Nicoletta volle che Antonio sapesse che lei aveva seri problemi di carattere ginecologico e nessuna possibilità di avere dei figli, ma ad Antonio andava bene così.
Il suo amore per Nicoletta superava ogni limite, voleva vivere con lei e darle un po’ di serenità. In quanto alla bambina, disse a Nicoletta che per lui era già sua figlia e che l’avrebbe cresciuta con l’amore di un vero padre.
Celebrate le nozze, Antonio si trasferì insieme al cavallo, al carretto ed a tutti i suoi arnesi da contadino nella casa dove Nicoletta aveva vissuto con Calogero.
Il lavoro in campagna cominciò ad avere un altro sapore; Antonio tornava a casa la sera con il carretto e chiamava dalla strada la sua Nicoletta. Annituzza, la bambina, gli correva incontro e gli si buttava fra le braccia . Lui le dava le nespole, le ciliegie, il grappolino d’uva e le diceva di andare a chiamare la mamma perché c’era la verdura da portare su.
Anna cresceva bene, era una cara figliola, bella ed educata, affettuosa con i parenti, dai modi garbati e signorili. Sapeva di essere figlia del primo marito della madre e che Antonio non era il suo vero padre, ma la mamma era la sua e quella non gliela toglieva nessuno. Aveva già quindici anni ed era proprio una bella signorina quando, mentre si trovava a passare insieme ad una cugina per una via piuttosto malfamata del centro storico, una donna le si avvicinò e gentilmente le disse che era molto bella e che somigliava in tutto alle sue sorelle. Quali sorelle? Anna la guardò storto. La donna le disse che lei era la figlia di una sua parente e che, se voleva, avrebbe potuto farle conoscere la sua vera madre, le sorelle ed i fratelli. Anna scappò a casa piangendo. La madre fu costretta a dirle la verità per come era capace di fare,con mezze parole e sguardi che volevano trasmetterle tutto il bene del mondo, le disse che lei non aveva potuto avere figli e che Calogero, per accontentarla, aveva voluto generarla con un’altra donna. Non le disse di averla comprata, ma le fece credere che era figlia di un amore segreto del marito. Però, disse Nicoletta, Antonio meritava ogni rispetto perché era lui che l’aveva cresciuta.
Anna da quel momento in poi non volle parlare più delle sue origini. Decise in cuor suo che era figlia di Nicoletta ed Antonio e non le interessava altro.
Nutrì sempre grande rispetto per i suoi genitori e prese con sé la vecchia madre quando questa, rimasta vedova, non potè più vivere da sola.
Per tutti i novantatre anni della sua lunga vita non volle mai sapere nulla della madre naturale e dei probabili fratelli o sorelle, né parlò mai con qualcuno della sua storia.
Il racconto dei fatti di quei lontani anni di primo novecento vuole essere una mia testimonianza di affetto nei riguardi di Nicoletta ed Anna, due donne eccezionali con le quali ho convissuto per lunghi tratti della mia vita.