mercoledì 31 dicembre 2008

Da bambina a donna : sulla scia dei ricordi

Sono nata in una cittadina dell’estremo sud della Sicilia occidentale, Mazara del Vallo.
Oggi il nome della mia città è negativamente associato alla mafia, alla delinquenza, allo spaccio della droga o ancora alla recente scomparsa di una bambina di quattro anni di nome Denise; in positivo, Mazara viene ricordata per il porto peschereccio, per il pesce pregiato o per il rinvenimento in mare del Satiro danzante.
A me piace molto la mia città e, durante il corso dei miei sessanta anni, ho sempre cercato di conoscerne la storia, rievocare immagini del passato e ricostruire pezzi di vita lontani nel tempo.
Sin da piccola, ascoltando i ricordi di chi mi viveva accanto, creavo dentro di me delle immagini mentali e in esse mi compiacevo fantasticando su un passato che era presente perché chi lo aveva vissuto era lì, accanto a me, pronto a darmi le spiegazioni che la mia curiosità di bambina voleva richiedere.
Mi attiravano molto, fra le altre, le storie che riguardavano i primi anni del secolo appena trascorso, il mondo dorato della “belle epoque”, quando anche nella mia città si incontravano donne dai lunghi fruscianti vestiti e cavalieri con cilindro e bastone. Lungo la via che da bambina percorrevo ogni giorno, la via Garibaldi, detta un tempo “maestranza”, cioè via Maestra, e nella piazzetta in cui essa sfociava, piazza “Chinea”, si trovavano botteghe ricche di ogni mercanzia; le giovani,accompagnate da donne più anziane ricoperte da lunghi scialli neri, acquistavano stoffe e merletti per preparare il loro corredo da spose ed aspettavano che l’amore bussasse alla loro porta. Chi bussava era poi una sensale di matrimonio, ”la mezzana”, una donna che proponeva il buon partito ed elogiava le virtù dell’uomo di turno, serio e soprattutto “granni travagghiaturi” (buon lavoratore).
Con la fantasia anch’io entravo ed uscivo da quelle botteghe e giocavo a vendere e comprare , avvolta in vestiti lunghi fino ai piedi e dandomi l’aria da gran dama.
Quando poi la nonna descriveva i concerti, “trattenimenti”, che si tenevano nella villa comunale nelle calde ed afose serate d’estate, davo sfogo alla fantasia immaginando dame gentili e un po’ civettuole che agitavano i loro ventagli con foga nascondendo il rossore quando la conversazione con i cavalieri diveniva un po’ più piccante.
Il racconto più divertente di quei lontani anni di primo Novecento era per me quello del bagno in mare.
Poichè l’abbronzatura significava fatica e lavoro sotto il sole, le donne del tempo, preferendo conservare il niveo candore simbolo del loro benestare, si recavano ai bagni di sera, al buio, quasi sempre nascostamente, badando bene a non farsi riconoscere.
Chiedevo allora alla zia, sorella della nonna: “Avevate il costume?” “Non ce n’era bisogno - rispondeva la cara zia Nicoletta - noi donne usavamo un grembiule che ci proteggeva davanti, dietro non occorreva protezione, il sedere l’abbiamo tutti uguale, sia uomini che donne!”
Ridevo e chiedevo alla zia altre storielle, volevo conoscere a fondo la realtà in cui si erano formate le generazioni precedenti alla mia, indagavo su persone e luoghi, ero curiosa del passato.
E’ così che imparai quale terribile cosa fosse la guerra e di come avesse portato dei cambiamenti nel modo di vivere dei miei concittadini; molti giovani erano andati a combattere lontano, ai confini d’Italia, e nelle famiglie scarseggiava la mano d’opera.
Moltissimi erano poi gli emigranti che si imbarcavano per raggiungere l’America e mio nonno era stato uno di loro.
I racconti di mia nonna Francesca riguardavano sempre la sua storia personale, la partenza del marito alla volta dell’Argentina, i sacrifici per acquistare una casa ed infine la sua scomparsa nel nulla.
Di mio nonno infatti si persero completamente le tracce nel 1933, dopo aver scritto nell’ultima sua lettera: ”Era meglio che non avessi venuto qui, na sta disgraziata America!”
La nonna mi mostrava le lettere che conservava gelosamente avvolte in un nastrino di velluto, mi mostrava la foto del marito e mi raccomandava di studiare perché per i poveri c’è sempre in agguato un brutto destino.
I racconti della nonna mi rattristavano per la difficoltà ad entrare nei panni di una persona che si era smaterializzata in un paese straniero di cui nessuno poteva parlarmi; mi piaceva moltissimo invece sentire i fatti accaduti durante il ventennio fascista.
Mussolini ci faceva stare tranquilli, mi diceva con entusiasmo mio padre, non c’erano ladri in giro e a Mazara si stava con le porte aperte!
Non mi piaceva il fatto di stare con la porta aperta ma, pur di ascoltare le storie di quei tempi, ero disposta anche a passare sopra le mie paure di animali che potevano entrare in casa e infilarsi sotto i letti!
Le parate in piazza, le sfilate in divisa, le canzoni patriottiche, gli sventolii delle bandiere, tutto era bello per i giovani dell’epoca.
Durante un ballo di carnevale in maschera, mio padre vide una giovane avvolta nella bandiera tricolore, mia madre, e fu subito Amore. La bandiera, per un ardente fascista come mio padre, aveva fatto certamente colpo ma mia madre, oltre ad essere anche lei innamorata del Duce, era molto carina!
Anche quando fu costretto a partire per l’Africa per assecondare il progetto coloniastico di Mussolini, mio padre continuava a difendere il suo Duce.
Mi faceva ascoltare un vecchio disco su cui era incisa la voce del dittatore che parlava pomposamente della nascita dell’Impero e mi diceva che era un peccato che le cose poi erano andate a finire così male.
Nei racconti di mio padre c’erano i nomi di alcune città africane che sono rimaste scolpite nella mia memoria, Tripoli, Bengasi, Sidi el Barrani, e poi El Alamain, ad 80 chilometri da Alessandria d’Egitto.
Quest’ultima città era una pietra miliare nei ricordi di mio padre perché, in seguito alla clamorosa sconfitta subita dal nostro esercito, sconfitta dovuta anche alla sproporzione degli armamenti, fu preso prigioniero dagli Inglesi e portato addirittura in Australia.
A questo punto iniziava la serie di ricordi da prigioniero, la fame patita, gli stenti ed il pensiero fisso alla fidanzata lontana.
Quando non volevo mangiare qualcosa, papà diceva che lui, in tempo di guerra, avrebbe dato chissà cosa per avere un po’ di cibo e che un giorno, nel suo accampamento, era sparita perfino una grossa patata usata dagli Inglesi per chiudere un tombino. Qualcuno l’aveva mangiata!
Tra i suoi ricordi c’era anche una incredibile caccia alle mosche che veniva fatta dai prigionieri di guerra. Vinceva un pasto chi riusciva ad uccidere più mosche.
Quando finalmente papà potè tornare in Italia, le disavventure continuarono perché il viaggio di ritorno da Napoli, dove era sbarcato, fino in Sicilia durò addirittura due mesi, dato che non si trovavano più in giro mezzi di trasporto.
Aiutandosi in ogni modo e percorrendo a piedi interi tratti, mio padre potè finalmente rientrare a Mazara e riabbracciare la fidanzata che, novella Penelope, lo aveva atteso per anni.
In quegli anni di guerra e di bombardamenti, la mia città era completamente cambiata. Il racconto delle peripezie e dei disagi durante la seconda guerra mondiale veniva fatto comunemente dalle mie zie, le sorelle della mamma, che mi parlavano di “sfollamenti”, abbandono delle case per rifugiarsi nei casolari abbandonati di campagna.
Sentir parlare della mia città deserta, priva di vita, mi dava una gran tristezza, vedevo cani randagi percorrerla in lungo e largo, sentivo il rombo degli aerei che sorvolavano il nostro cielo e mi sentivo stringere il cuore.
Poi mi dicevano che una bomba era caduta sulla casa della zia Nicoletta dividendola in due parti distinte.
La parte distrutta della casa era là, ben visibile ancora durante la mia infanzia; anzi, una delle stanze su cui era caduta la bomba era divenuta, con il tempo, un giardinetto dove cresceva rigoglioso un bellissimo albero di nespole.
Giocavamo alla guerra con i miei cugini e buttavamo bombe di carta sul giardino incolto, mentre mangiavamo le nespole ed usavamo i noccioli come proiettili.
Con l’arrivo degli Americani le cose poi erano cambiate, mi dicevano gli zii.
Dall’alto delle jeeps, i soldati americani buttavano scatolette di carne e cioccolata, mentre i miei concittadini facevano ritorno tristemente nelle loro case abbandonate.
La storia degli anni della prima metà del Novecento era per me viva e reale; più tardi la ritrovai nei libri di scuola e la riconobbi subito, avendola appresa da bambina con il semplice racconto di vite vissute.
Sempre riferendosi a quegli anni di guerra e dopoguerra, mio padre amava raccontarmi le avventurose imprese di un bandito siciliano, Salvatore Giuliano. Teneva sul comodino dei fascicoli a fumetti che io avidamente leggevo, affascinata soprattutto dalle figure femminili di donne bellissime dai lunghi capelli ondulati che nelle ricche case di conti e marchesi, aspettavano il terribile bandito per una notte d’amore.
Mio padre ammirava il personaggio dei fumetti più che il vero protagonista e mi diceva convinto che, se non l’avessero ammazzato a tradimento, forse la Sicilia avrebbe avuto una storia diversa. Giuliano stava organizzando un’intesa con i politici americani e forse noi siciliani saremmo diventati tutti Americani!
I magici incantesimi della mia infanzia erano alimentati anche da detti proverbiali, filastrocche, preghiere e racconti popolari.
C’era un motto per ogni avvenimento ed una preghiera giusta per le varie situazioni in cui ci si veniva a trovare.
Più che il testo di ciò che veniva pronunziato era il rituale la cosa più importante. Un rituale arcaico che si ripeteva da generazione in generazione e a cui quelle persone semplici credevano in modo incondizionato, ritenendo saggio ciò che veniva dal passato ed aveva tracciato la via del loro sapere .
Se al mattino mi gingillavo senza fare nulla e non avevo alcuna voglia di studiare, la nonna mi diceva: “La matinata fa la jurnata!” Voleva dire: “Se non studi di mattina, non ti verrà più la voglia di studiare e perderai la giornata!” E così presi l’abitudine di svegliarmi presto al mattino e di ripassare le lezioni della giornata con la mente lucida, riuscendo a rendere più di ogni altra ora del giorno.
Guai se non avevo voglia di mangiare! Mi si diceva: “Saccu vacanti ‘un po’ stari a l’addritta !” Equivaleva a dire: “Chi ha la pancia vuota non può stare all’impiedi!”
Non avrei potuto affrontare una giornata di studio e di lavoro con il sacco della mia pancia vuota!
Quando testardamente mi rifiutavo di fare qualcosa, mia madre mi diceva: ”La testa è chidda ch’un senti !” e, se disturbavo, mi gridava: “Nun rumpiri l’ova na lu panaru!” (rompere le uova nel paniere era un grosso fastidio, certamente!)
Si parlava a volte in famiglia di qualche ragazza nubile che non riusciva a trovare marito, allora invariabilmente si diceva: “Seri, seri, chi bedda ventura veni!”, cioè bisogna avere pazienza, sedere per l’appunto, perché la buona sorte sarebbe arrivata,prima o poi.
Simpatiche erano anche le filastrocche cantilenate, che assumevano a volte l’aspetto di vere e proprie formule di incantesimo.
La preghiera per San Vito, protettore della città di Mazara, era un’invocazione magica in caso di pericolo e faceva riferimento ad un’antica credenza che voleva il Santo trionfatore percorrere le strade della città di notte per difenderla dagli attacchi nemici. Qualcuno aveva visto di notte un cavaliere misterioso su un cavallo bianco. Certamente si trattava di San Vito!
La poesiola diceva così:
Santu Vitu di Mazzara,
cu lu vrazzu n’arripara
e a lu populu devotu
scansa guerri, tempesti
e terremotu!”



Il 13 dicembre, per la festa di Santa Lucia, dovevamo astenerci dal mangiare pane e pasta per tutta la giornata, si mangiava solo “cuccia”, cioè grano addolcito con “vino cotto”, che dava al cereale un gradevole sapore dolciastro.
Santa Lucia era la Santa protettrice degli occhi ed io avevo molta paura di rimanere cieca, se avessi trasgredito la regola!
Mia madre mi faceva ripetere così:
Santa Lucia, la virginedda
tutta pura e tutta bedda
la grazia nn’havi a fari
la vista di l’occhi nn’havi a guardari
!”

Solo così avrei potuto, preservando la vista, continuare gli studi, unica cosa importante per la mia vita.
La messa in scena recitata come orazione fatta ogni sera prima di andare a letto dalla zia Nicoletta, nella cui casa andavo a dormire per farle compagnia, era la cosa più bella a cui mi toccava assistere.
La zia prendeva in mano il grosso mazzo di chiavi , simbolo del suo potere casalingo dopo la morte del marito, poi cominciava a chiudere la porta che dava all’esterno, sulla strada, ripetendo così:
Iu chiuru la porta mia
cu lu mantu di Maria
lu vastuni di San Simuni
ascippa l’occhi a li mali persuni
e cu voli mali a mia.”
nun po’ attruvari né porta e mancu via
.”

( Io chiudo la mia porta mia
con il manto di Maria,
il bastone di San Simone,
strappa gli occhi alle cattive persone
e chi mi vuole male
non potrà trovare né porta né via.)

Dietro questa filastrocca si nascondeva la storia di una ragazza (“Fatto vero!”- diceva la zia), che viveva da sola perché orfana e, per la sua bellezza, era oggetto di attenzione da parte di molti uomini.
Ad uno di costoro, particolarmente cattivo, venne un gran desiderio di possedere la ragazza e così, dopo aver visto il posto in cui abitava, vi si recò a notte fonda con l’intenzione di farle del male.
Ma, per quanti sforzi facesse, non riusciva mai a trovare la porta della casa della ragazza. Al posto della porta, trovava un muro.
La zia Nicoletta mi diceva che la ragazza, ripetendo la filastrocca che ho riportato sopra, diventava immune da ogni male ed attirava su di sé la protezione di Maria che la copriva con il suo manto e quella di San Simone dal bastone infuocato.
La zia era convinta anche lei che la filastrocca-preghiera la proteggesse ed io mi divertivo a stuzzicarla dicendole che non poteva essere credibile che la porta diventasse muro.
Quando poi ci mettevamo a letto, nel suo lettone matrimoniale che profumava di lana di pecora e dove chi si coricava sprofondava nell’incavo formato dal proprio corpo, cominciava la lunga serie delle litanie o “cose di Dio”.
Mi sembrava di assistere ad una rappresentazione sacra dove i personaggi rievocavano scene tratte dai vangeli, miracoli, apparizioni prodigiose, con l’articolazione di rime a volte anche monotone, ma sempre espressione di un particolare senso di religiosità e di una specifica cultura.
Mi addormentavo stanca, convinta nel mio intimo che tutti i personaggi menzionati avrebbero protetto il mio sonno di bambina.
Per la mia vita da scolara ci avrebbe pensato Pinuzza Cusenza, una bambina morta in odore di santità che, a detta della nonna, proteggeva gli studenti.
Andavo a scuola con il santino che la raffigurava in tasca e, quando venivo interrogata dall’insegnante, lo stringevo ben bene fra le mani.
Nelle sere d’estate era abitudine diffusa presso i miei concittadini quella di sedersi fuori, all’aperto, nelle vie sgombre di macchine e ottimo parco-giochi per noi ragazzi che, stanchi di rincorrerci, finivamo col metterci anche noi nel circolo degli adulti per ascoltare storie fantasiose di mostri, fantasmi, gnomi, folletti e tutta una serie di personaggi fantastici.
Parenti e vicini di casa insieme ridevano e scherzavano allegramente, dimenticando le ultime disavventure della guerra e alla ricerca di un po’ di serenità.
A volte ci raggiungeva un signore che, fra lo stupore generale, era capace di decantare a memoria interi canti dell’Orlando furioso; ricordo anche una incredibile signora che veniva da Palermo capace di indovinare l’ora esatta in qualsiasi momento, senza avere l’orologio.
Molto strana era anche una donna, di nome Vitina, insofferente al colore giallo. Se intravedeva, anche da lontano, qualcuno con un indumento giallo, si avvicinava di botto e strappava l’oggetto che le dava fastidio, incurante del male che poteva arrecare al malcapitato di turno.
Un giorno, vedendo aperta la porta, entrò come un fulmine a casa mia e strappò dal balcone i fiori gialli che erano cresciuti nei vasi.
Nella mia città il personaggio più strano che ancora oggi viene ricordato con simpatia era l”omu-cani”. Si trattava di un barbone che aveva scelto di vivere ai margini della società, sulla strada e sotto i portici di piazza della Repubblica. Non accettava nulla da nessuno, mangiava quello che trovava nella spazzatura e fumava le cicche delle sigarette che i miei concittadini buttavano per strada. Noi bambini non avevamo paura di lui, anche perché non parlava con nessuno e non faceva del male, semplicemente aveva scelto un modo di vivere un po’ inusuale.
Mio padre buttava in terra le sigarette e gli dava modo di fumare, poi lo salutava affettuosamente chiamandolo “Tommaso”.
Dopo la sua morte, cominciò a circolare la voce che il personaggio misterioso che aveva soggiornato a Mazara per anni poteva essere nientedimeno che lo scienziato Ettore Majorana, scomparso negli anni proprio nello stesso periodo in cui il misterioso “omu-cani” aveva cominciato a circolare per le vie della città, molti furono i sostenitori di tale tesi, ma la cosa non fu mai chiarita. Tommaso, “omu-cani”, è ancora oggi uno dei personaggi più strani che io abbia conosciuto.
Molti erano i luoghi della città che erano considerati magici . La via detta “della figurella” o “la strata di lu ecu”, dell’eco, era la più incredibile e simbolica espressione del religioso e del profano uniti insieme, in una elaborazione popolare fantastica e per certi versi misteriosa.
Ci si recava in questa via al mattino, dopo aver recitato continue preghiere per tutto il tragitto dalla propria casa, si formulava mentalmente un interrogativo su ciò che si voleva sapere, qualcosa che poteva riguardare sia il proprio che l’altrui destino, poi si proseguiva lentamente prestando religioso ascolto ad ogni minimo rumore, alle parole pronunciate dagli abitanti del luogo, agli animali ostili che avrebbero potuto scagliarsi contro; tutto poteva essere significativo e profondamente carico di una nascosta simbologia.
Una delle mie zie, quando non aveva notizie del marito lontano, mi prendeva per mano e mi faceva partecipare al magico rituale.
Se sentivamo delle voci che dicevano: “Bonu stà, nun ti preoccupari!”, oppure “ora veni, ora veni!” o qualcosa di simile, la zia tornava a casa rasserenata, sicura che il marito stava bene e presto sarebbe tornato.
Ma se per caso un cane ci abbaiava dietro, affrettavamo il passo verso la via del ritorno, convinte che c’era qualcosa che non andava.
Oggi si è perso completamente il ricordo della strada dell’eco. Vi soggiornano, nelle ore pomeridiane, bande di ragazzini con i telefonini accesi che, certi del loro presente, non hanno bisogno di interpellare voci lontane per avere informazioni e consigli.
Tra i luoghi religiosi misti di sacro e profano, c’erano le chiese dell’immediato circondario, alcune delle quali dedicate alla Madonna ma con nomi diversi, c’era la Madonna del Paradiso, la Madonna dell’alto e la chiesa di Santa Maria di Gesù.
Ad ognuna di queste chiese era dedicata una particolare festività a cui si partecipava in massa, essendo anche occasione di svago e divertimento.
Chi riceveva una grazia particolare dalla Madonna del Paradiso si impegnava ad accompagnare, a piedi scalzi, il quadro della Madonna miracolosa nella solenne processione che si svolgeva e si svolge tuttora il secondo mercoledì del mese di luglio. Ci si impegnava anche ad indossare un vestito particolare di colore celeste somigliante, nella forma, ad una ampia tonaca, stretto in vita da un cordone bianco.
Dal balcone di casa mia vedevo sfilare la lunghissima processione, avvertivo forte l’odore dei ceri accesi, lunghi quanto era lunga la persona che li teneva in mano, e dicevo a me stessa che la Madonna era veramente brava a fare i miracoli, ma il miracolo più grande era il fatto che tanta gente riusciva a camminare senza scarpe, a piedi nudi, sull’asfalto unto di cera.
Presso la chiesa della Madonna dell’alto ci recavamo la sera del ferragosto. A piedi, ridendo e scherzando, percorrevamo la lunga strada rettilinea che conduceva nella chiesetta normanna; poche preghiere questa volta, si trattava solo di semplice divertimento.
E così era per divertimento che il lunedì di Pasqua ci recavamo a frotte a “Miragliano”, un fantastico luogo roccioso nei pressi della chiesa di Santa Maria di Gesù, dove devotamente ci fermavamo a pregare.
Facevamo merenda fra le rocce mangiando patate bollite ed uova sode, e mentre noi ragazzi andavamo ad esplorare le grotte vicine, i grandi ci dicevano di stare attenti perché in una di queste grotte una volta si erano dispersi sette seminaristi . La grotta era stata chiamata “grotta di li setti parrini”; se ne conosceva l’entrata e non l’uscita.
Intanto il tempo passava lento ed inesorabile; apparentemente sembrava che tutto fosse sempre uguale, in realtà, la mia vita e quella dei componenti la mia famiglia subiva le trasformazioni proprie della società in continua evoluzione.
Quando anche a Mazara arrivò la televisione, fu l’apertura verso nuovi orizzonti. Non più personaggi creati con la fantasia, non più fatti selezionati e proposti dai nostri lontani progenitori con una lingua limitata alla cerchia di noi Siciliani, ma storie somministrate da un potere lontano, in una lingua che non ci apparteneva ma che era l’unica possibile per tutti.
Riuniti attorno all’apparecchio televisivo, oggi abbiamo sostituito le fantasie e le letture dell’infanzia con telefilm, fiction e fumetti animati, mentre abbiamo permesso a cantanti, attori e divi del calcio di guidare le nostre giornate e riempirci la testa con i loro scoop.
Entrata nel mondo degli adulti, mi capitò per qualche tempo di contestare personaggi e luoghi della mia giovinezza; amavo il nuovo, il moderno, l’innovazione foriera di epocali cambiamenti.
Dietro la mia apparente modernità però finivo col ritrovare sempre il romanticismo dell’infanzia e la formazione un po’ fatalistica che aveva dato origine alla mia cultura.
Sono trascorsi parecchi anni dai fatti appena raccontati e con essi è trascorsa la mia gioventù, insieme alla ingenuità ed alla spensieratezza che la caratterizzavano.
Oggi vivo ancora nella stessa città dove nulla è così radicalmente cambiato che non si potrebbe, volendo, riconoscerle l’aspetto di allora; ma sono mutati gli uomini e le cose mentre le vicende, se pure a volte simili a quelle di un tempo, non ne hanno certo lo stesso carattere.
Così, per un momento, mi volto ancora a guardarle e cerco di capire perché continuano ancora a lanciarmi i loro messaggi, a parlarmi di semplicità, di poesia, di valori, in una realtà divenuta ormai difficile anche in questo profondo sud.
Sfogliando il libro dei ricordi, mi ritrovo a fare i conti con me stessa, ad ordinare le cose nel loro spazio e nel loro tempo e, come per una precisa simbolica corrispondenza fra passato e presente, rivedo netto il mio personale percorso di vita: da bambina a donna.

giovedì 25 dicembre 2008

SUOR DOLORES

Suor Dolores



Ogni volta che guardo un suo quadro appeso sulla parete della mia casa, mi ricordo di lei, della piccola suora con la passione per l’arte pittorica, Suor Dolores. Se oggi dovessi ricostruire alcuni momenti della mia storia personale, soprattutto quella riguardante il periodo di tempo che va dai miei quaranta ai cinquanta anni, non c’è personaggio che possa avermi influenzato più di lei, escludendo naturalmente i miei familiari più stretti.
Nella stanzetta, da lei chiamata bugigattolo, in cui trascorreva buona parte del suo tempo, Suor Dolores dirigeva le sue attività caritatevoli e riceveva chiunque avesse avuto bisogno di consigli, di frasi gentili, di parole affettuose. Tutta la sua persona mostrava a grandi linee che Cristo era al centro di quel frammento di storia e di mondo in cui si trovava collocata.
Dipingeva, pregava, ascoltava e si occupava dei problemi di chi aveva bisogno, soprattutto degli extracomunitari.
Erano tempi in cui erano ancora pochi gli extracomunitari che approdavano nella nostra città e la gente mostrava molta diffidenza nei loro riguardi. Solo le suore del Sacro Cuore, a cui apparteneva Suor Dolores, erano disponibili all’ascolto e riuscivano anche a dare un aiuto concreto di cibo e la possibilità di usufruire, per brevi periodi, di una stanzetta indipendente che apparteneva alla struttura del monastero.
Suor Dolores era l’artefice di tutte le opere di carità che potevano essere fatte in quel dato momento storico.
Telefonava a casa mia in qualsiasi momento, sicura che l’avremmo aiutata a risolvere i problemi che ci sottoponeva di volta in volta.
Una volta ci chiamò a tarda sera per dirci che aveva visto due ragazzi dormire su cartoni accanto alla porta del monastero.
Occorreva intervenire subito- ci disse- perchè come cristiani non potevamo permettere una cosa del genere.
Mio marito la tranquillizzò e le disse che sarebbe andato a verificare la cosa. Si trattava di due giovani marocchini, Omar e Driss, clandestini e senza dimora. Furono sistemati alla meglio e la preoccupazione di suor Dolores diventò anche la nostra.
E che dire di quella famiglia di nomadi slavi , con quattro piccoli bambini, che vagabondavano per le strade di Mazara?
Non c’è tempo da perdere,- ci disse Suor Dolores- dobbiamo dare un tetto a questa famiglia. E così , dietro i suoi consigli,insieme ad alcune famiglie della città cominciammo a dare il via agli aiuti, alla ricerca di un posto dove farli dormire, ai vestiti per i bambini, al cibo ed a tutto ciò che ritenevamo necessario.
Suor Dolores voleva il nostro aiuto , ci diceva spesso che Cristo è nel povero, in quella umanità sofferente di cui la piccola suora non riusciva a disinteressarsi. Il libro che la ispirava di più in tutte le sue azioni era “ L’imitazione di Cristo”, di cui volle regalarmi una copia con dedica.
Mi diceva spesso: ”La Provvidenza di Dio si serve anche di te. Rimetti tranquillamente a Lui quanto non riesci a comprendere. Iddio non ti inganna. “
E, nei momenti di difficoltà, mi ripeteva: “Ricordati che il nostro Padre sa di cosa abbiamo bisogno, Egli non abbandona mai i suoi figli. Rifletti piuttosto sulle cose buone che Dio ha voluto donarti e non lasciarti abbattere mai troppo dalle circostanze della vita perché spesso quello che per lungo tempo non ha concesso, Dio lo concede in un breve istante.”
Per me era diventata una bella consuetudine quella di recarmi a salutare Suor Dolores ogni volta che mi ritrovavo con del tempo libero. Mi faceva accomodare nel suo stanzino, mi mostrava gli ultimi lavori di pittura,”scarabocchi” li definiva , poi chiedeva notizie dei miei figli e sempre riusciva a dirmi qualcosa di buono da custodire gelosamente nel cuore.
Mi parlava anche della sua vocazione, della sua dedizione alla Madonna e mi regalava le sue piccole cose, santini, giornali e riviste che conservava apposta per me, con le frasi più incisive segnate bene a matita.
Purtroppo, con l’età, anche di suor Dolores s’impadronì quel terribile mostro chiamato Alzheimer .
Cominciò a dimenticare avvenimenti e persone e, coricata nel suo letto con il rosario fra le mani, mi chiamava “signora” e sosteneva di non conoscermi.
A distanza di qualche anno dalla sua morte , conservo ancora in me i suoi insegnamenti e , affrontando le difficoltà della vita, mi capita spesso di pensare:cosa mi direbbe in questo momento Suor Dolores ?


Mariagrazia Vitale

lunedì 15 dicembre 2008

FIGURE DI DONNA: CARMELA

FIGURE DI DONNA: CARMELA


Tiene in una mano una fetta biscottata mentre, con l’altra mano,cerca di spalmare della marmellata servendosi di un coltellino di plastica bianca.
E’ intenta a compiere la sua operazione come se fosse la cosa più importante della sua vita. Guarda la sua fetta resa lucida dalla copertura tremolante di marmellata e sospira: “Da quannu sugnu all’ospidali,mi attuppà la fami!”
“Si sforzi, signora Carmela, mangi qualcosa !” le dico avvicinandomi a lei ,
anche per scambiare due chiacchiere e trascorrere i tempi morti delle giornate trascorse in ospedale, tra lamenti di malati e bottiglie di flebo che penzolano sui letti.
Seduta sul bordo della sedia, come se dovesse alzarsi da un momento all’altro, Carmela fa cenno di avvicinarmi, vuole raccontarsi, parlare delle sue cose, del passato,dei figli, dei nipoti,della sua vita di oggi e di ciò che farà dopo, quando uscirà dall’ospedale.
“La mia malattia è che il colon e un rene si toccano e si infiammano. Questa è tutta la malattia. Mi dissero che domani mi faranno la colascopia, la cosa scopia, insomma mi devo bere quattro litri di acqua, ma come si fa?”
Comincia a parlare a ruota libera; le rughe del suo volto si animano, prendono vita, diventano tutt’uno con la bocca che macina parole, pezzi di vita che si ricompongono insieme alla saggezza della gente di Sicilia, fatta di espressioni consolidate nel tempo e ripetute da intere generazioni.
“Iu mai ivi da lu dutturi. Mancu quannu accattava li figghi!”
Partoriva e, il giorno dopo, si alzava dal letto e si metteva a lavorare in casa. Quando stava per nascere il suo ultimo figlio, sentì che era giunta l’ora e disse alla sorella: “Metti l’acqua ‘n capu, chi sta nascennu!”
“ Quattro chila era stu figghiu me e iu sugnu ccà! Ora fannu ecografia, esami e tanti cosi; prima c’era sulu la levatrici!”
Il racconto della nascita dei figli prosegue con altri particolari. Tre figli, tre storie diverse. Uno di questi venne fuori dai piedi. “Chi cosi tinti! L’ostetrica dicia chi stu picciriddu chi stava pi nasciti era un animale!”
“Ma come, un animale!” dissi io tanto per dire qualcosa, anche perché era lei, Carmela, che teneva in mano la conversazione.
“Certo,la levatrice lo toccava per i piedi e non trovava la testa! Basta, anche per questa volta tutto andò bene, il bambino si capovolse da solo e non ci fu bisogno di dottore.”
“ Il giorno successivo al parto- disse ancora Carmela- andai all’ufficio postale a cambiare un assegno di mio marito, perché avevo bisogno di soldi, per la nascita e tutto il resto.”
“Come era suo marito? Era innamorata di lui?”chiesi .
“Mio marito era un bell’uomo. Sembrava un attore “
Si trattò di un matrimonio “portato”. Carmela non lo conosceva, né lui conosceva lei, che aveva solo sedici anni e portava ancora i calzini corti.
“ Un giorno venne in casa mia un conoscente insieme ad un giovanotto , così per fare una visita, dicevano. In realtà, si voleva fare la riconoscenza.” Carmela, quando vide il giovanotto ,rimase favorevolmente colpita e si innamorò subito di lui. Si fidanzarono e si sposarono nel 1950, dopo quattro anni di fidanzamento.
“Un giorno- racconta Carmela- mio marito mi vide piangere e mi chiese perché ero così dispiaciuta. Forse lui non si comportava bene? Forse c’erano problemi che lui non conosceva? Io non riuscivo a parlare, piangevo e basta.
In quel periodo ero incinta di cinque mesi e non sapevo da dove doveva uscire quel bambino che sentivo crescere dentro di me”.
Le chiesi allora perché non ne aveva parlato con la madre o con le sorelle e perché si era tenuta quei dubbi dentro, tanto da piangere in modo così imprevedibile.
“Mia madre era malata- rispose- aveva l’anemia mediterranea.” Se l’era presa per il troppo dispiacere di vedere uno dei suoi figli , un bambino di un anno e mezzo, colpito da meningite.”
“Mia madre non aveva voluto più mangiare e si era ammalata” Toccò a Carmela, sin da piccola, accudire la famiglia e curare i bambini. Per questo motivo non aveva frequentato la scuola. Neanche un giorno di scuola aveva fatto.
“Mi facia la cruci e dicia “Patri, figghiu e Spiritu santu” . Così iniziavo le mie giornate. Faciamu troppu malavita, ora si sta bene e non c’è paragone con la vita che faciamu prima”
Durante la guerra, una “vastedda” di pane doveva servire per giorni e veniva razionato ogni pezzetto di pane, anche duro come pietra perché il pane era una grazia di Dio.
“Quando mio fratellino mi chiedeva un pezzetto di pane, io non potevo resistere. Prendevo la “vastedda” da sotto il materasso, dove la nascondeva mia madre, e gliene davo un pezzetto a me fratuzzo.”
Il frumento veniva pestato con le pietre, si cucinava il farro e si mangiavano fave bollite e “taddi” di broccoli.
Poi, dopo la guerra, le cose cominciarono a migliorare. I marinai ripresero ad andare in mare e, pian piano, la vita migliorò. Però, per un certo tempo, i mari erano pieni di mine e molte barche saltarono in aria con i loro pescatori.
“Tante disgrazie ci furono allora a Mazara . Finalmente, arrivò una nave d’ispezione che tolse tutte le mine dal mare e così le cose migliorarono. I marinai guadagnarono tanto che si fecero case e villini.”
“Insomma- dissi allora a Carmela che , infervorata dai racconti, sembrava aver dimenticato i suoi acciacchi- finita la guerra e con il matrimonio, la vita cominciò a sorriderle o no?”
“Ma quali sorrideri e sorrideri – mi rispose Carmela - i miei guai avianu ancora a ‘ncominciari! A me maritu ci vinni” la giannizza” e morsi a 50 anni.
Iu arristà sula e con un minimo di pensione!”
Le chiesi se fosse andata a lavorare o se avesse cercato aiuti.
“Iu a travagghiari nun ci vulia iri. A li me figghi mi li criscì sula, senza aiutu di nuddru, con un minimo di pensione . Quella avevo e quella mi doveva abbastare.”
“Signora Carmela- le chiesi- oggi la vita è ben diversa da quella della sua giovinezza. Le sembra migliore o peggiore il modo di vivere di noi cittadini mazaresi?”
“Megghiu, megghiu, nun c’è paragoni. Oggi non c’è nuddu chi addisia un pezzu di
pani. La genti va nelle pizzerie e li picciotti mangianu gelati. Iu, con la pensioncina chi mi duna lu guvernu,cinquecento euro al mese, sugnu tranquilla e nun dugnu nociu a li me figghi.”
“Cosa può fare con cinquecento euro?” chiedo allora con curiosità.
“Io ci mangio, pago le bollette di luce e faccio anche qualche regalino ai miei nipoti, per le cresime e li compleanni.Proprio ora finì di aggualarici cinquecento euro a mia nipote che si avi a maritari. Pi la tredicesima mi accatto li robi pi lu matrimoniu. Mi li accattu di Spina, ddà mi servu sempri.”
L’arrivo dell’infermiera di turno interruppe la conversazione. Carmela mi fece tanti auguri per la salute della mia mamma e mi disse abbracciandomi: Ricordati, tutto quello che si fa per i genitori, ci sarà ricompensato prima o poi!”

AGONIA

Lente le ore d'attesa
dell'affannoso trapasso.
Silenzi,respiri profondi,
lamenti.
Dai mobili tubi
di plastica,
stanche appendici del corpo distrutto,
passano umori segreti
liquidi gialli e verdastri.
Piccola tremola
goccia di pianto
è l'unica forma di vita.


Mariagrazia Vitale 28 settembre 2008

martedì 6 maggio 2008

Elena : un grido dell’anima

Vivere da extracomunitari in un Paese europeo è particolarmente difficile per i mille problemi di adattabilità , di scelta dello stile di vita o anche di delinquenza che si presentano giornalmente e che fanno apparire gli stranieri tutti uguali, con una stessa unica etichetta che li comprende in modo negativo.
Io, Elena, trentasettenne di origini ucraine , ho scelto di venire in Italia solo per lavorare e creare una mia nuova famiglia, dopo le mie tristi e esperienze di vita nel mio Paese d’origine.
Ciò non toglie che io non mi senta ancora ucraina fin dalle mie più profonde radici, porto con me il carattere del mio popolo, le inquietudini della sua storia più recente, le trasformazioni di un regime che sembrava inattaccabile e che abbiamo visto crollare come una pera già giunta a maturazione, porto con me il disagio di chi non sa più a cosa attaccarsi, a cosa credere ed in cosa sperare.
Partendo dal mio Paese in cerca di una nuova vita, proprio come facevano gli emigranti italiani agli inizi del secolo, avevo un solo pensiero, riprendere con me mio figlio, un bambino di dieci anni che avevo affidato alla nonna ed a cui avevo promesso che sarei presto tornata a riprenderlo.
“Verrai in Italia con me!” continuavo a ripetergli telefonicamente e con queste parole cercavo di supplire la mia mancanza, l’assenza di coccole da parte di una madre latitante che era fuggita via dal suo paese per cercare nuove alternative di vita.
Sasha intanto cresceva lontano da me e le mie viscere si contorcevano al pensiero del mio bambino, mentre le lunghe notti sembravano non finire mai sempre con il pensiero fisso che poteva succedere qualcosa di brutto , che il mio piccolo poteva, non so, ammalarsi, avere un incidente, morire , mentre io me ne stavo a migliaia di chilometri di distanza, completamente impossibilitata a dargli un minimo aiuto.
E fu così che trascorsero gli undici, i dodici, i tredici, i quattordici anni di Sasha.
Viveva in casa della nonna e del compagno di lei, amato certamente da mia madre ma con il cuore in sospeso, pronto a prepararsi a partire verso l’Italia, non appena io l’avessi chiamato.
Le molte difficoltà in cui sono venuta a trovarmi in Italia e la nascita di una seconda figlia, questa volta italiana e con un padre italiano, sono state la causa del ritardo accumulato nei suoi confronti.
Ma forse è meglio che racconti la mia storia sin dall’inizio, da quando vivevo felice in Ucraina con i genitori e mia sorella Natalia, di cinque anni più giovane di me.
Negli anni ’70, quando ero una bambina, eravamo in pieno regime comunista.
Lo Stato organizzava la nostra vita e noi ci affidavamo ad esso, come ad un buon padre che ha a cuore la salute dei suoi figli.
Ci dicevano che eravamo molto fortunati a vivere sotto il regime, perché ci era garantito tutto ciò che era necessario, potevamo studiare e preparare il nostro futuro, avere tutto ciò di cui avevamo bisogno, in barba agli Stati capitalisti dove non era garantito il lavoro per tutti.
Se devo dire la verità, nella mia famiglia si viveva però meglio che in altre famiglie dell’Ucraina. Mio padre aveva fatto una bella carriera nel campo legislativo ed aveva ottenuto un buon posto di lavoro.
Aveva studiato legge quando già era sposato con mia madre, la quale l’aveva stimolato molto aiutandolo anche economicamente con un lavoro intenso, mentre lui pensava solo a studiare. Nelle ore libere dal lavoro ufficiale lei faceva delle riparazioni di sartoria e provvedeva ai bisogni della famiglia che sopravviveva grazie ai suoi sacrifici. La nascita di due bambine, me e mia sorella, aveva contribuito ad accrescere le difficoltà, ma alla fine mio padre riuscì a raggiungere l’obiettivo della laurea in legge e cominciò una brillante carriera fino a svolgere la funzione di Pubblico Ministero. A causa di questa sua situazione di privilegio, fummo costretti spesso a spostarci in varie città dell’Ucraina, ma per noi bambine non si trattava di grosse sofferenze.
Mia madre, che proveniva da una famiglia culturalmente elevata ed anche economicamente benestante, aveva fatto di tutto per superare le condizioni difficili degli inizi della sua vita matrimoniale mostrandosi sempre pronta a stimolare marito e figlie alla istruzione, ritenuta da lei fondamentale. Per questa sua intelligenza e capacità di adattamento, riusciva a trovarsi bene dappertutto ed a trovare da lavorare anche nei difficili anni del comunismo.
La mia infanzia apparentemente tranquilla portava in sé una carica enorme di problemi che vennero alla luce con il passare del tempo.
I privilegi di cui cominciò a godere mio padre con la sua attività finirono con il ritorcersi contro di me e mia sorella perché le persone che avemmo la sfortuna di incontrare negli anni giovanili cercavano da noi solo favoritismi ed aiuti dal nostro genitore. Mia madre, spartanamente, ci educava a contare solo sulle nostre forze ed a non chiedere nulla a nessuno, neanche a nostro padre.
Finiti gli studi secondari, mi iscrissi all’Università, in scienze dell’economia.
Ero abbastanza brava in matematica e pensavo di diventare una “economista”, esperta in discipline economiche.
Mentre frequentavo l’università nella città di Kharkov, conobbi Andrej. Avevo solo diciotto anni e, come tante ragazze della mia età avevo voglia di amare ed essere amata. Non mi sentivo certamente pronta per un matrimonio ma i miei genitori e quelli di lui ritennero giusto farci sposare, visto che abitavamo entrambi in una città diversa dalla loro. Così, a diciannove anni, mi ritrovai sposata con un ventitreenne ancora immaturo e desideroso soltanto di ricavare da questo matrimonio qualche privilegio da mio padre.
Dopo due anni nacque Sasha . La nascita del bambino non mi portò serenità e mentre lavoravo, studiavo e pensavo al mio bambino, lui, mio marito faceva solo finta di lavorare.
Allora cominciai ad avere le prime grandi difficoltà della mia vita, non ero aiutata da nessuno, nemmeno da mia madre che continuava a ripetermi che dovevo cavarmela da sola, come aveva fatto lei; anzi arrivò al punto di vietare categoricamente a papà, che avrebbe potuto farlo grazie alla carica che ricopriva, di aiutarci.
Attraversai allora dei momenti molto difficili perché Andrej, avendo perso la speranza di trovare una buona sistemazione, finì con l’allontanarsi sempre di più da me e dal mio bambino. Frequentava altre donne e tornava a casa ubriaco fradicio, mi faceva continue scenate e gridava contro di me per nulla.
Non ce la feci più, scappai da casa con mio figlio e non volli vederlo mai più.
Dopo la fine di questa mia prima storia, amareggiata e delusa, ritornai a vivere nella casa dei miei.
Avevo una laurea conseguita con ottimi voti, il piccolo Sacha cresceva abbastanza bene e mi sembrava che gli incubi fossero finiti.
A 25 anni, incontrai il mio secondo uomo. Era molto più vecchio di me, già separato dalla moglie ed economicamente un buon partito. In quegli anni di ripresa economica si facevano strada le persone attive che, partendo dal nulla, riuscivano a creare delle solide posizioni. Vladimjr lo fece, grazie anche all’aiuto offertogli da mio padre ed io pensai che potevo finalmente avere un po’ di serenità.
Mi misi insieme a lui per ricreare la mia famiglia e dare una figura paterna a mio figlio. Agli inizi della convivenza, Vladimjr fu molto affettuoso e caro ed io lasciai , spinta da lui, un buon lavoro presso una farmacia che gestivo insieme ad una mia amica. Per un certo periodo mi sentii realizzata sia come donna che come madre, godevo di una certa agiatezza ed avevo una casa confortevole.
Quando però i miei genitori, dopo 26 anni di matrimonio , decisero di divorziare, sia la loro che le famiglie delle figlie subirono un clamoroso sbandamento.
Mio padre, liberatosi dal giogo in cui si sentiva costretto da mia madre, cercò rifugio tra le braccia di una donna molto più giovane di lui, la sposò in chiesa ed andò a vivere con lei a Kiev.
Il trasferimento di mio padre portò come conseguenza anche la fine della mia unione con Vladimjr che, avendo perso la protezione di cui godeva per i suoi affari, cominciò a trascurarmi ed a cercare nuove avventure.
Anche mio padre si dimenticò presto sia di me che di mia sorella e, divenuto padre di due bambini, prese ad interessarsi solo della sua nuova famiglia.
La mamma, divenuta ormai povera, decise di venire a lavorare in Italia.
Capii allora per la prima volta che noi Ucraini potevamo avere delle nuove possibilità uscendo fuori dal nostro paese, potevamo guadagnare di più e creare un futuro diverso per i nostri figli.

In quel periodo, gli stipendi medi per un lavoratore in Ucraina erano irrisori e i soldi che si potevano guadagnare in un mese in Italia facendo anche la donna delle pulizie o la badante agli anziani, erano pari allo stipendio di un anno nel nostro paese.
Mia madre arrivò in Italia da clandestina, come facevano in molti e come ancora molti continuano a fare.
Lavorò in Italia come badante per due anni e, al ritorno, consigliò a noi figlie di cercare la via dell’emigrazione.
Finita la storia con Vladimjr, mi ritrovai ancora una volta sola con il mio bambino di nove anni e senza alcun lavoro. Potevo contare solo su me stessa e non avevo nessuno su cui fare affidamento.
Decisi di venire in Italia ed iniziare una pagina bianca della mia vita.
Pensavo di lavorare ed avere la possibilità di incontrare qualcuno che fosse diverso dagli uomini del mio Paese, tutti protesi al guadagno facile e con poche certezze di stabilità.
“Qui in Ucraina la famiglia non ha basi sicure - mi ripetevo - non abbiamo un futuro da costruire perché tutto è estremamente precario. Voglio credere che ci sia un posto dove la famiglia conti ancora qualcosa, un posto in cui un padre ed una madre riescano a svolgere il loro ruolo senza conflitti e dove mio figlio possa trovare quelle sicurezze che gli sono state negate da bambino.” Avvertivo fortemente il senso della famiglia tradizionale, quella che avevo scoperto sui libri e che a me era stata purtroppo negata.
Nel mio paese è molto difficile avere un permesso di uscita, occorre dimostrare di avere i mezzi per mantenersi, conoscere qualcuno in Italia che paghi una cauzione e poi ci sono mille altri intoppi, tanto che si finisce con il preferire la scorciatoia della clandestinità.
Io entrai in Italia con un sotterfugio. Dimostrai, con l’aiuto di una signora compiacente, mamma di una mia amica, di lavorare in Ucraina come operaia presso la sua azienda e di voler fare una gita turistica in Germania.
In realtà, l’azienda era piccolissima e con pochi lavoratori. Falsificammo alcuni dati e riuscimmo a dimostrare che io percepivo uno stipendio tale che mi permetteva di fare una gita in Germania.
Tutto andò bene, mi fu dato il visto e mi preparai per la partenza.
Con il cuore straziato affidai il mio bambino a mia madre dicendole che sarei tornata presto a riprendermelo e iniziai il mio viaggio di emigrante alla volta della Germania. Da lì, come turista europea, riuscii ad arrivare in Italia, Paese tanto desiderato.
Mia sorella, insieme al suo compagno di nazionalità ucraina, si trovava già in Italia ed aveva trovato lavoro in una città siciliana, Mazara del Vallo. Li raggiunsi e iniziai la mia nuova vita in Italia.
Mi sembrava di essere arrivata nell’Eldorado che avevo sognato per tanto tempo... Avevo solo bisogno di uscire dalla clandestinità, ma non c’erano per me molte prospettive.
Iniziai a lavorare presso una lavanderia di Mazara e riuscii anche ad avere un piccolo appartamento tutto per me sopra il locale in cui lavoravo.
Cominciarono allora le proposte degli uomini del luogo, volevano prestazioni sessuali ed offrivano protezione ed assistenza.
Caddi dalle nuvole quella prima volta che un conosciuto professore d’inglese della città mi fece la proposta di andare a letto con lui la sera stessa in cui l’avevo conosciuto!
Così fu per altri uomini che in quel periodo mi vennero presentati. C’è una incredibile caccia alle extracomunitarie da parte di alcuni uomini che, approfittando del nostro momentaneo bisogno di aiuto, pensano di riuscire ad avere facilmente ragione su di noi. Ci prendono tutto, ma non la nostra anima.
In Sicilia poi la mentalità comune è così fortemente maschilista e legata all’idea dell’uomo dominatore che si finisce facilmente con il ritenere la donna, e soprattutto la extracomunitaria, come un essere inferiore, una specie di schiava che deve solo essere riconoscente ed ubbidire.
Non sapendo assolutamente nulla della mentalità dell’uomo siciliano, mi lasciai trascinare in un’altra delle mie poco felici avventure.
Conobbi un uomo di diciotto anni più vecchio di me, Pino, siciliano libero da legami e desideroso in quel periodo di compagnia femminile.
Mi fece una corte discreta, diversa da quella a cui mi avevano abituata gli incontri sporadici con altri giovani del luogo, mi portò al ristorante e mi fece fare qualche passeggiata in macchina.
Quante volte mi sono detta: che stupida sei stata! Quante volte mi sono pentita di essere andata con lui e di essermi fatta travolgere dal mio forte desiderio di ricomporre la mia famiglia!
Quando rimasi incinta, Pino sembrò contento anche perché da sue precedenti unioni non aveva mai avuto figli ed era convinto che non ne avrebbe mai avuti. Mi fece conoscere la sua famiglia e tutti i suoi parenti concordarono sul fatto che io dovessi tenere il bambino che portavo in grembo.
“Adesso mi sposa! -pensavo- così posso andare a riprendermi Sacha! “Non fu così.
Pino, dopo aver avuto la bambina ed appagato la sua paternità, non ha mai parlato di regolarizzare la nostra unione né ha mai fatto qualcosa per permettermi di ricongiungermi con mio figlio Sacha.
La piccola Michelle è la sola persona che lui ha nel cuore. Io non conto nulla.
Tre mesi fa, stanca di attendere il suo beneplacito per far venire Sacha in Italia, con un colpo di mano, ho portato clandestinamente con me in Italia il mio ragazzo di quattordici anni.
Pino ha reagito nel peggiore dei modi. Non voleva, non vuole e non riesce ad accettare la presenza di mio figlio nella sua casa.
Dice che non si sente più padrone e che io e mio figlio facciamo comunella contro di lui, dice che dobbiamo smetterla di essere ucraini, che dobbiamo trasformarci in italiani e pensarla esattamente come lui. Rimpiange i soldi che ha speso per me e mi rinfaccia continuamente la sua bontà e magnanimità nei miei riguardi.
Io, extracomunitaria proveniente da un Paese sottosviluppato, ho osato fare qualcosa senza la sua approvazione, ho osato portare con me mio figlio ucraino e creare un pezzo di Ucraina nella sua casa! Inammissibile! Sacha doveva venire in Italia già italianizzato, anzi Pinizzato, cioè come lui, Pino, il solo padrone della nostra vita.
In questi mesi mio figlio ha regolarmente frequentato la scuola media e gli insegnanti lo trovano molto intelligente e recettivo. E’ solo desideroso di stare con la sua mamma, dopo averne subito l’assenza per quasi cinque anni. Io lavoro come collaboratrice domestica ad ore
e cerco di essere una buona mamma per entrambi i miei figli , la piccola Michelle, coccolata e viziata dal padre e dall’intera sua famiglia,e Sacha, che dell’Italia ha conosciuto solo il lato peggiore.
Oggi le cose sono proprio precipitate in modo tale che la sola cosa che mi resta da fare è quella di riportare mio figlio in Ucraina dalla nonna ed aspettare che diventi maggiorenne . Ed io? Dovrò rimanere a vivere con la mia bambina e l’uomo che mi ha trattato , e continua a trattarmi, tanto male o, ancora una volta ,mi toccherà fare le valigie per ricominciare tutto da capo?
Sono una donna senza speranza, il mio grido di dolore parte dal più profondo della mia anima.

martedì 22 aprile 2008

IO e LA SCUOLA


Nel sogno mi vedevo in un grande edificio dai lunghi corridoi deserti e silenziosi, completamente privi di suppellettili, una scuola non scuola senza alunni né insegnanti, un ambiente asettico e privo di vita. Giravo per i corridoi con i libri legati da un elastico ed un registro in mano, alla ricerca di una aula dove recarmi. Consapevole di avere già finito la mia carriera di insegnante e di essere in pensione, ma ancora nelle vesti di alunna come lo ero stata tanti anni prima, non saprei dire se per punizione o premio, mi toccava di dover tornare a scuola.
In quale ruolo? Ero scolara o insegnante? Ero lì per apprendere o per comunicare ciò che avevo appreso?
Bidelli a cui chiedere l’ubicazione dell’aula non ce n’erano, vagavo per i lunghi corridoi un po’ stizzita e per nulla contenta di dover tornare a scuola dopo un dorato dolce far niente.
All’improvviso, in fondo allo sgabuzzino per le scope, individuavo la mia aula. Aprivo la porta con un certo timore, non mi sentivo più sicura di me e della mia capacità di stare con i giovani, riconoscevo però nel sogno il brusio dei ragazzi a cui le mie orecchie erano abituate, i rumori dei banchi smossi, le risate, gli intercalari in dialetto siciliano, “Ma chi sì scimunitu’? Chi dicisti? Chi aviamu a studiari stu jornu?” e, soprattutto, sentivo il suono della campanella che mi ha accompagnato per molto tempo della mia vita.
“Coraggio! - mi dissi – entra nella tana del lupo!” A questo punto mi svegliai e ringraziai il cielo che il mio fosse stato solo un sogno.
Avevo paura! avevo paura di fare una cosa che avevo fatto per anni, giorno dopo giorno; entrare in classe, trovare dei ragazzi che aspettano chiacchierando, sedermi fra i banchi o in cattedra ed immergermi nel clima scolastico.
Mio marito mi prese in giro quando ascoltò il mio sogno ma io capii che avrei dovuto tirar fuori dal cassetto della memoria i ricordi della mia vita svoltasi in gran parte in ambiente scolastico, dovevo affrontare le mie esperienze tirandole fuori dal limbo in cui le avevo nascoste, dovevo in qualche modo ripescarle e giudicarle.
In fondo - mi dicevo - non ho particolari nostalgie né risentimenti. Gli anni di studio e di carriera scolastica mi sono scivolati addosso come acqua che scorre veloce. Le tracce lasciate dallo scorrere degli anni sono, ahimé, ben visibili ed hanno contribuito a formare l’involucro del corpo entro cui mi trovo costretta, ma lo spirito, il mio spirito, è ben fuori da questo involucro, è libero di vagare nella vasta area della fantasia o di rinchiudersi come un riccio nel ricettacolo che ha voluto costruirsi.
A volte mi sono chiesta come fare per lasciare un mio ricordo ai posteri, come uscire dall’anonimato per dire: C’ero anch’io in quegli anni! C’ero, vivevo, sognavo, agivo, esattamente come i giovani e le donne di adesso, quelle che frequentano la scuola, che sono alle prese con i figli, con i familiari, con il lavoro, che cercano un’intesa con il coniuge o che, rifiutando di intendersi, tirano i loro remi in barca.
Non voglio essere congelata con le mie memorie. Mi piacerebbe tirarle fuori e farle rivivere, anche se non potrò mai parlare di esse in modo fedele e nitido, ma solo per il piacere di mostrare a me stessa ed agli altri che vivere in un certo modo in una terra come la Sicilia è stata e sarà una grossa scommessa e che la mia generazione, tutto sommato, può essere definita come una generazione di passaggio, di preparazione, di attesa di eventi, che poi sono proprio quelli di oggi.
Il mio rapporto con i libri è avvenuto molto presto. Seduta sulla scala di casa, cerco di decifrare gli scritti di un sillabario e chiedo alla mamma spiegazioni sui segni di scrittura. Ho poco più di tre anni e la mia curiosità del mondo comincia a mostrarsi.
Papà è orgoglioso di me e lo si vede abbondantemente nelle foto sbiadite dell’epoca. Un giovanotto che indossa ampi pantaloni e camicia a sbuffo dà la mano ad una bambina dal vestitino arricciato in vita e con tanti fiorellini sul capo.
Sono i tempi della ripresa dopo il duro periodo della guerra. Nella mia città c’è ancora molta povertà, ma la speranza che qualcosa sta per cambiare spinge la gente a cercare nuove vie di ripresa economica, nuovi traffici per i commerci e, soprattutto, si comincia ad intuire che la cultura può formare degli individui liberi e capaci di giudicare senza paraocchi.
La scuola, ancora rigidamente divisa in maschile e femminile, offre la possibilità di ripresa. Questo aveva intuito mia madre che ha speso tutta se stessa per far studiare i suoi figli.
Durante i miei tredici anni di vita, mi si materializzarono, senza che me ne rendessi conto, ben quattro fratelli; ad uno ad uno si univano al resto della famiglia e vi si insediavano in pianta stabile. Una cosa non avevo in comune con loro, ero più grande e femmina, mentre loro erano più piccoli, maschi e poco portati per la scuola.
Mi toccò fare da mamma, accudirli e seguirli negli studi, cosa che facevo anche volentieri, perché sin da piccola ho sentito mio il doppio ruolo dell’allieva e dell’insegnante.
Nella ricostruzione dei miei ricordi vedo un mondo scolastico lontano e privo di vita, un grosso edificio con tante bambine che indossano grembiuli neri, una maestra dai capelli brizzolati legati dietro a crocchia, anche lei con un grembiule lucido nero, banchi enormi tinti di grigio con davanti il buco per il calamaio e l’incavo per la penna con il pennino e tante ragazzette attorno a me pronte a proteggermi perché ero la più piccola di tutte loro.
Arrivavano a casa mia al mattino in quattro o cinque, aspettavano con pazienza che mia madre finisse di imboccarmi una poltiglia di pane e latte che io tenevo in bocca con disgusto senza riuscire a mandare giù i bocconi che lei, imperterrita, continuava a porgermi scendendo giù fino in fondo alle scale, mentre mi gridava di spirugliarmi, fare presto, inghiottire senza troppe storie, perché aveva gli altri bambini da accudire.
Ricordo ancora il sapore di quel pane e latte. In casa non avevamo caffè, cioccolata o altro che potessero correggere il sapore di quella pappetta bianca e quasi sempre fredda che ingoiavo come una medicina, una cosa che si doveva fare obbligatoriamente e senza tante storie. Ad ogni minima disattenzione da parte di mia madre, cercavo di nascondere il contenuto della poltiglia masticata e rimasticata tra le piante grasse poste sulla scala e sognavo un mondo senza pane e latte, un mondo di cioccolata, gelati e grosse caramelle alla frutta.
Quando dormivo dalla zia Nicoletta, il latte aveva il sapore del caffé d’orzo che la zia abbrustoliva in una grossa padella affumicata e che poi macinava con un vecchio ed annerito macinino da caffé. Ma era sempre un sapore più buono di quello del latte tutto bianco, dove la panna si appiccicava come un velo rugoso proprio sopra i pezzetti di pane duro, quasi sempre residui della cena precedente.
E dalla zia Nicoletta c’era pure la possibilità di avere dei biscottini mescolati al pane. Si chiamavano “pastini”, erano semplici biscotti quadrati da latte che si vendevano a peso, in cartocci di carta. La zia mi mandava a comprarli in un negozietto di alimentari proprio vicino a casa sua e mi raccomandava di stare ben attenta al peso perché la signora Maria aveva l’abitudine di imbrogliare la gente.
Alle elementari ci arrivai per caso un giorno di ottobre, quando già l’anno scolastico era iniziato ed io mi annoiavo sui gradini della scala e desideravo andare a scuola, una vera scuola e non quello stupido asilo che non aveva stimoli da offrirmi.
Avevo quasi cinque anni quando Elvira, figlia dell’ inquilina del pianterreno della nostra casa di corso Umberto, mi prese per mano e disse a mia madre che mi avrebbe accompagnata a scuola. “Signura Tina, - disse - iu portu la picciridda di lu diretturi e la fazzu leggiri. Viremu chi dici!”
Mia madre si mise a ridere, non credeva che una ragazzina potesse riuscire in quella che lei riteneva una impresa azzardata. Elvira aveva già finito la quinta elementare, si sentiva matura e pensava di conoscere bene la scuola e l’ambiente scolastico, mentre mia madre aveva una specie di soggezione delle persone che non conosceva, non voleva “levari lu cappeddu”, cioè disturbare nessuno.
Entrammo, io piccoletta ed Elvira che mi teneva per mano, nello studio del direttore Messina. Dal tavolo ingombro di libri e carte, il direttore prese un libro e mi disse di leggere; io ubbidii e lessi una intera pagina senza mai fermarmi ed anzi cercando di fare del mio meglio per dimostrare che capivo il contenuto del discorso.
A questo punto il direttore mi regalò dei confetti che erano lì sul tavolo, residuo di chissà quale matrimonio, poi chiamò una bidella e le disse di far venire in presidenza la maestra Pavia.
Mi fece ancora leggere davanti alla maestra poi le disse di portarmi con lei nella sua classe. La maestra Pavia non avrebbe voluto. Questa bambina è troppo piccola e mi darà dei problemi, pensava, ma non osò contestare le parole del suo direttore, mi prese per mano e mi portò con lei. Insegnava in una seconda classe ed io, rispetto alle ragazzine di sette anni che erano perfettamente scolarizzate e sapevano cosa vuol dire frequentare la scuola, ero uno scricciolo. Se non va bene, glielo dico subito, pensò. E’ una bambina da asilo, non può rimanere in seconda.
Invece ci rimasi, accolta con entusiasmo dalle compagne che, vedendomi piccola ed indifesa, decisero di proteggermi e curarmi.
Il sapore del pane e latte mangiato prima di recarmi a scuola, le compagne di scuola che attendevano in strada, gli inquilini della casa della nonna che abitavano nella nostra stessa casa e condividevano con noi la scala, anzi abitavano la scala, vista come luogo di ritrovo soprattutto d’estate, quando ci si sedeva per trovare un po’ di fresco e si aspettava di riempire l’acqua nella fontanella che stava nell’entrata, i miei perché, le mie attese, i miei pochi giochi di bambina che non sa che farsene delle bambole, considerate inutili e senza vita e cerca invece altre risposte nel mondo dei libri e degli adulti, è questa la mia infanzia.
Leggevo molto, ma fuori della scuola. Presi l’abitudine, quando ero ancora molto piccola, potevo avere sei o sette anni, di recarmi presso la Biblioteca comunale per chiedere in prestito dei libri adatti alla mia età. Non ricordo chi mi spinse a fare questo, forse qualche vicino di casa o la maestra, qualche grande certamente dovette accompagnarmi per la prima volta nel grande edificio dei Cavalieri di Malta dove era ubicata la biblioteca cittadina. Da sola attraversavo il Corso Umberto dove abitavo, tagliavo diagonalmente piazza Mokarta e poi su fino al maestoso palazzo, costeggiando la villa comunale.
Salivo le grandi scale e dopo aver bussato, aprivo timorosa la grande porta marrone della stanza dove era situata la biblioteca. In fondo, dietro ad un lunghissimo tavolo rettangolare, in mezzo a pile di libri e giornali ancora piegati con l’etichetta appiccicata sopra, c’era la signorina La Malfa.
Piccola, con grossi occhiali da miope e con l’aria seria della studiosa che conosce tante cose perché è in stretto contatto con il Sapere , la signorina La Malfa mi accoglieva come una persona adulta. Dall’altra parte del tavolo, su cui arrivavo a malapena, con un filo di voce dicevo: “Vorrei qualche libro da leggere.” Lei chiedeva allora, a me bambinetta inesperta di tutto, se avevo idea di cosa leggere ed io rispondevo che volevo vedere le copertine dei libri.
Mi teneva un po’ sulle spine la signorina La Malfa, spesso mi lasciava là ad aspettare che finisse i suoi lavori, là davanti al suo tavolo, in attesa. Quando finalmente si decideva a chiudere l’ultimo libro che stava registrando, trotterellava fino a me con l’aria di chi viene distolta per capriccio dal compiere un lavoro serio ed importante, mi veniva accanto e mormorava: “Avanti, andiamo a prendere questi libri!”
Era tanto allora il mio disagio che desideravo non essere mai andata fin lì, ma la mia voglia di tuffarmi nel mondo incantato della lettura mi faceva superare ogni ostacolo ed allora le andavo dietro seguendo i suoi passettini e guardandomi intorno con un muto ossequio al mondo della cultura che lei si accingeva a dischiudermi. Superavamo il corridoio della storia, quello della letteratura, della scienza, e finalmente mi conduceva nel mio regno, quello dei libri per ragazzi. Sceglieva la chiave giusta da un enorme mazzo che teneva nella tasca del grembiule nero (Chissà perché allora le donne avevano tutte grembiuli neri!) ed apriva finalmente i lucchetti degli scaffali di ferro dove c’era un mondo incantato tutto da scoprire. Mi perdevo dietro i titoli dei libri: La piccola pattinatrice, La piccola fioraia, La piccola Cenerentola, La principessa sul pisello…. Tutto serviva a solleticare la mia fantasia, sognavo principi azzurri e fate turchine. La signorina mi consigliava di leggere questo o quel libro e mi faceva apporre la firma per esteso nei suoi grossi registri.
Se chiudo gli occhi riesco ancora ad avvertire quel forte odore di polvere che formava un tutt’uno con la signorina La Malfa, mentre lei, la signorina, non era per me una persona vera, ma un arredo di quell’enorme stanza, era un libro antico, un giornale, un bollettino. Non ho mai capito se allora era giovane o già vecchia, se aveva una sua vita o se rimaneva sempre là, con i libri e le riviste da mettere a posto, con il suo piccolo passo felpato e con la mano sulla bocca per farti fare silenzio.
Di libri ne ho letti tanti durante la mia infanzia e continuo a leggerne ancora, desiderosa di scoprire il lato fantastico della vita, la parte nascosta dell’essere umano che si inventa delle storie forse per fuggire dalla mediocre realtà.
Cos’è la cultura? Come si crea la cultura di una persona? Quanto peso riescono ad avere le attitudini personali, l’ambiente familiare, la scuola e tutto quanto ci circonda nel preciso momento storico della nostra crescita?
Se fossi nata alcuni anni prima sarei certamente cresciuta in modo diverso, avrei osannato il fascismo e avrei subito la guerra, qualche anno più tardi ed avrei goduto i privilegi del mondo computerizzato, avrei avuto una educazione più aperta e meno rigida di quella che mi sono ritrovata a subire. Ognuno ha la possibilità di godere il momento presente nel contesto in cui nasce e penso che, in qualsiasi situazione veniamo a trovarci, quello che conta è lo spirito con cui si affrontano le situazioni, l’amore per la vita, il desiderio di fraternizzare con quelli che stanno vivendo l’avventura insieme a noi.

Stavo per finire le elementari quando mia madre, parlando con una cugina maestra, seppe che non potevo sostenere gli esami di ammissione per la scuola media perché non avevo l’età. Occorreva infatti aver compiuto i dieci anni per poter frequentare le medie.
Per la prima volta nella sua vita mia madre abbandonò la sua caratteristica timidezza nei confronti delle persone di cultura e decise di andare a trovare a casa la Preside La Marca.
Era costei una istituzione nella nostra città. Piccola e grassa, incuteva timore solo a guardarla, figuriamoci poi se si metteva a gridare! Tremavano tutti, alunni, professori, bidelli. Bastava vederla spuntare da lontano per avere paura! “Signura,- disse a mia madre- la facissi iucari cu li bamboli, la picciridda!”
Così, invece di farmi giocare con le bambole, che proprio non mi piacevano, fu presa la decisione di farmi frequentare un altro tipo di scuola, l’avviamento professionale.
Non presi molto sul serio questo tipo di scuola, giocavo sui banchi e mi distraevo volutamente, mentre nel pomeriggio pensavo a prepararmi per sostenere l’esame di ammissione alla scuola media.

Il Collegio era, e rimane ancora, uno dei più belli edifici della città. Costruito dai Gesuiti in una piazza del centro storico di Mazara, univa al fascino del passato il gradevole passaggio delle giovani vite che si andavano formando fra le sue solide mura. Un cortile interno all’aperto e tante aule sotto i porticati , dove si correva, si faceva la ricreazione, si giocava, fino a quando non sentivamo tuonare la voce della Preside.
Il mio ingresso alle medie fu per i miei genitori come l’ingresso alla Università. Sentivo su di me gli occhi di mia madre orgogliosa di avere una figlia che studiava il latino, l’inglese, tutte cose che lei sconosceva!
“Siti granni, siti granni, ormai!”- ci disse la mamma di Pasana, una compagnetta di scuola dal nome complicato, la mattina del primo giorno di scuola. “Sono grande” - mi continuavo a ripetere da sola quando vedevo che mia madre aveva poco tempo da dedicarmi. “Tu si’ granni ! – mi diceva la mamma quando mi affibbiava i miei fratelli e mi diceva di farli studiare.
Per fortuna, avevo qualche compagna di scuola su cui fare affidamento. Caterina veniva prestissimo a casa mia dopo la scuola, mi aiutava a seguire i compiti dei miei fratelli, poi prendevamo per mano il piccoletto ed andavamo in giro per le vie della città.
La professoressa di lettere, carica di libri e registri, con i capelli raccolti a treccia appuntati dietro, vestita quasi sempre di grigio e di scuro, diritta, impettita ,ben consapevole del suo importante ruolo di insegnante, arrivava nella piazza dove noi ragazzine chiacchieravamo aspettandola e ripassando gli ultimi argomenti delle lezioni. Ripetevamo a memoria le poesie che lei ci aveva assegnato e parteggiavamo per i personaggi dell’Iliade, Ettore, Achille, il povero Patroclo…
Non protestavamo per i troppi compiti, gli interminabili esercizi di analisi logica ci servivano per stare insieme e chiacchierare, scrivevamo pagine e pagine di esercizi, nome, genere, numero e caso. Il latino diveniva la naturale conseguenza di quelle lunghe esercitazioni grammaticali che ci allenavano a comprendere la struttura del discorso.
Adolescenti si è tutto o niente, ci si sente padroni del mondo o umili schiavi, si è distratti, ansiosi, protesi verso un futuro lontano. Cosa faremo? come si svolgerà la nostra vita?
Erano tempi di ripresa economica, di novità. Volevamo conoscere altre storie, altre situazioni ambientali e non restare legate al nostro piccolo mondo siciliano in cui ci sentivamo un po’ imbrigliate. Chi andava al Nord, magari per una semplice gita, raccontava situazioni fantastiche, c’era più libertà, i ragazzi e le ragazze uscivano insieme la sera, andavano a ballare senza i genitori, si divertivano, e noi qui su e giù per il corso a gettare qualche occhiata ai ragazzi ed a sognare avventure impossibili.
Un giorno mia madre mi portò in casa di una signorina che faceva parte di quel mondo di cultura da lei ammirato tanto e che scriveva poesie; mi costrinse a leggere una poesiola che avevo scritto in occasione della morte della nonna. Era una poesia con le rime, di tipo pascoliano, che faceva “oh, nonna, nonna raccontami ancora le novelle…”; un po’ come nella “Cavallina storna”, quando la madre del poeta interroga la cavallina sulla fine del marito, io interrogavo il cielo sul perché la nonna era morta così prematuramente. La mamma era orgogliosa della mia vena poetica ed ogni tanto mi chiedeva :poesie ne scrivi più?
La signorina Signorino, che viveva da sola in una casa proprio di fronte alla mia, sempre vestita di scuro per non so quale lutto, piccola di statura con capelli lunghi fino al collo di un colore indefinibile ed un incredibile naso che finiva a punta e le dava un aspetto da strega cattiva, mi sorrise mostrando una bocca sdentata e gengive rossastre mentre io, al culmine dell’imbarazzo, fui quasi costretta a leggere la mia poesia. Capì certamente che avevo voluto emulare qualche poeta studiato a scuola ma mi incoraggiò lo stesso a continuare a scrivere.
Lei si riteneva una brava poetessa e fu con orgoglio e commozione che volle mostrarmi due grossi quaderni dalla copertina nera su cui erano scritte a mano le sue poesie .
Ci fu per me anche una tentazione religiosa. In un periodo di attesa, quando tutto attorno a me sembrava essere una preparazione del futuro, cercavo la mia strada fra le poche cose che potevo aver modo di conoscere e di assaporare. Frequentavo la chiesa ed ero iscritta all’Azione Cattolica, ascoltavo convinta le lezioni di catechismo ed amavo fare gli esercizi spirituali, che mi davano modo di riflettere e scrivere dei pensieri sul mio diario.
La chiesa mi dava sicurezza, il silenzio della grande navata centrale della nostra Cattedrale mi faceva sentire bene e poi l’odore d’incenso, i canti alla Madonna, le lunghe recite di rosari, mi procuravano delle belle sensazioni di pace. Dicevo alle mie compagne di aver visto un personaggio enorme, forse Dio, che scrutava dalla cupola interna, ma nessuno mi prestava attenzione.
Fui molto impressionata dal fatto che una giovane insegnante di catechismo, ad un certo punto della sua vita, volle andare a chiudersi come monaca di clausura nella chiesa di San Michele. La signorina Passalacqua scomparve dalla circolazione. Chiusa nel convento, pregava e faceva dolci con le sue consorelle, “i muccunetti”, la cui ricetta è ancora un segreto delle suore. Ma chi glielo aveva fatto fare? E se anch’io facessi così? mi dissi una volta, ma solo una volta, perché questo tipo di vocazione non faceva parte della mia natura.
A me piaceva l’amore e la famiglia, guardavo i ragazzi e mi piaceva molto essere ammirata. E poi, notavo, non ho voglia di divenire una signorina mummificata come quelle che bazzicano troppo la chiesa. Io desidero vivere e godere tutti i momenti della mia vita, uscire da questo ambiente siciliano retrogrado e provinciale, conoscere altre realtà stimolanti e, soprattutto, trovare un lavoro che possa rendermi indipendente economicamente.
La scuola poteva darmi la possibilità di realizzare i miei sogni.
Giocavo sotto i banchi con minuscole carte da gioco e ridevo per nulla nella classe mista ginnasiale dove la professoressa di latino e greco se ne stava sempre seduta in cattedra senza mai fare una scorribanda fra i nostri banchi.
C’era una punta di cattiveria in noi ragazzi quando parlavamo della nostra insegnante, soprattutto per via del suo aspetto pesante, tutto d’un pezzo, come in alto così in basso, e per i suoi capelli diritti di un colore grigio - biancastro, tagliati con una tazza, dicevamo.
Durante la ricreazione la osservavamo da lontano mentre tirava fuori da una grossa borsa un cartoccio con del pane e un pezzo di formaggio pecorino, faceva un po’ di spazio sul tavolo della sala professori allontanando da sé i registri ed i compiti in classe e si metteva a mangiare di gusto. Noi ragazzi, attenti alle sue mosse, la spiavamo dal corridoio e commentavamo ridendo i suoi gusti alimentari ed i suoi forti odori personali, che sapevano di sudore rappreso e di formaggio.
Siccome la signorina abitava vicino casa mia, io informavo i compagni sulle sue mosse e per un certo periodo la seguimmo da lontano, curiosi di carpire i suoi segreti e scoprire cosa facesse di pomeriggio. Non c’era verso, andava da casa in chiesa e dalla chiesa in casa.
Il preside del Liceo ginnasio “G.G. Adria” era un sacerdote, noto per la sua severità ed intransigenza.
Chiuso in una lunga tonaca nera, girava per i corridoi della scuola attento a mantenere l’ordine e la disciplina. Al mattino si faceva trovare in cima alla scalinata, diritto ed impettito, attento a controllare il nostro aspetto esteriore, i vestiti, i capelli, tutto doveva essere nella perfetta norma. Aveva fatto fare dei buchi nelle porte delle classi attraverso cui era solito spiare il comportamento di alunni e professori. Tutti temevano l’occhio del preside appiccicato a quel buco e nessuno voleva farsi trovare colpevole.
Il Liceo classico Gian Giacomo Adria era conosciuto in provincia per il tipo di educazione rigida e seria che vi veniva impartita e gli insegnanti erano soliti mantenersi staccati dagli alunni, quasi in un’altra dimensione. Un professore di greco trattava noi quattordicenni e quindicenni da adulti dandoci rigorosamente del lei ed ostentando dei modi affettati e cortesi che ci facevano tanto ridere. Aveva la mania del parlare forbito ed, entrando in classe, ci diceva subito: Comodi, comodi. Noi ripetevamo: comodino, comodino.. Era tutto un gioco di parole che ci faceva divertire tanto, con quel tipo di risatine leggere, per nulla maligne, fatte di parole sussurrate fra i banchi tra una traduzione e l’altra, mentre Natale fingeva di soffiare con forza il naso e, parandosi dietro un grosso fazzoletto, faceva delle gran pernacchie.
Nelle classi liceali un altro prete ci insegnava latino e greco. Con l’incoscienza dell’adolescenza facevamo i nostri comodi sotto i banchi e fingevamo di ascoltare lui che leggeva i suoi appunti, scritti fitti fitti su foglietti volanti.
“Si carta cadit…” - dicevamo ridendo, convinti che il professore non avrebbe avuto proprio niente da dire senza i suoi preziosissimi fogli .
Le nostre interrogazioni con questo professore erano scandite con grande regolarità e pertanto potevano essere tranquillamente programmate. Egli interrogava seguendo il calendario e dandoci la possibilità di segnare le date sui nostri quaderni in modo che potevamo conoscere in anticipo il giorno in cui saremmo stati interrogati e perfino i voti che ci assegnava.
“Professore, secondo lei, il destino esiste? “Gino, il ragazzo più bravo della classe, esordiva così quando arrivava in classe il professore di storia e filosofia e noi non avevamo studiato la lezione. Non ci interessava proprio nulla del destino e delle complessità dell’animo umano, volevamo soltanto far passare l’ora senza impegnarci con la mente.
Il professore parlava e parlava, mentre noi fingevamo di ascoltare interessati. Conoscevamo le paginette di lezione in modo meccanico senza osare mai fare agganci o riferimenti e senza capire i codici interni delle varie materie, né il loro possibile uso al di fuori della scuola. Imparavamo a memoria le date delle battaglie e ripetevamo a pappagallo i concetti di filosofia servendoci di frasi fatte ed espressioni usate dai professori.
La nostra era un’età in cui ci si appassiona alle piccole cose, in cui si crede di essere furbi, capaci di affrontare il mondo con il minimo sforzo, ma è anche l’età dei dubbi, delle incertezze, del non dormire la notte se qualcuno ci tratta male, l’età dei grandi entusiasmi e delle altrettanto grandi delusioni.
Quanto ho odiato il professore di fisica!
Entrava in classe portandosi dietro una grossa e tonda pancia, ci costringeva, anche d’inverno, a stare con la finestra aperta perché, diceva, un po’ d’aria fresca vale quanto una fetta di carne, e poi cominciava a scorrere il dito sul registro per le interrogazioni. Quando pronunciava il mio cognome, mi sentivo morire. Non riuscivo a soddisfare le sue aspettative perché mi ripeteva insistentemente che non capivo la fisica e per quanti sforzi avessi potuto fare, non avrei mai e poi mai potuto avere dei risultati soddisfacenti.
Era un periodo in cui il tempo passava lentamente, protesi verso il futuro ci sentivamo come passeggeri di un aereo in attesa di imbarco.
Quando arrivò il momento dell’esame di maturità, ci rendemmo conto di essere molto ignoranti e di non avere alcuna cognizione degli argomenti che fingevamo di avere studiato.
Studiai molto e finalmente mi resi conto di come i fatti storici erano tutti collegati fra loro e di come esistesse un legame fra le varie discipline che eravamo abituati a vedere in modo staccato, a seconda del professore che l’insegnava. Riuscii a cavarmela abbastanza bene con gli esami di maturità ma alcuni miei compagni furono costretti a ripetere l’anno.
Eravamo pronti per festeggiare. L ‘appuntamento con i compagni era in piazza, presso il bar che faceva il miglior gelato della città. I bocciati avevano preso la cosa con filosofia, dopotutto si trattava di guai rimediabili, un anno in più al Liceo e la possibilità di rimediare più tardi, quando saremmo stati tutti quanti alle prese con le materie universitarie.
Ridevamo contenti e facevamo progetti per il futuro. Finalmente andremo via da Mazara, ci dicevamo. Palermo, Bologna Firenze, grandi città, grandi ambizioni, pochi soldi e tanta voglia di riscatto.
Dall’altro lato della piazza vedemmo spuntare il professore di fisica. “Cosa ha da gesticolare tanto? – disse Enza, quella che aveva più feeling con il professore perché innamorata della fisica - sembra che voglia dirci qualcosa!” - “Lascialo perdere, - feci io - ormai di lui me ne frego!” - “E invece ci chiama, ci vuole dire qualcosa! – replicò Enza - io vado a vedere!”. Andammo incontro al professore e in quel preciso momento andammo incontro al primo grande dolore della nostra giovane vita. Il nostro compagno Simone era morto qualche ora prima in un gravissimo incidente. Voleva festeggiare la fine degli esami ed era salito in macchina con altri due ragazzi. Il guidatore, molto inesperto, aveva fatto una manovra sbagliata e la macchina era finita in un burrone, causando la morte del ragazzo che sedeva accanto all’autista .
Non riuscivamo a piangere, non sapevamo ancora piangere per seri motivi. Ricordavamo solo l’allegria di Simone, il suo sorriso, le sue battute di spirito, il suo primo innamoramento.
L’università ci sembrò allora l’unico modo per fuggire anche da questo brutto episodio, via dai ricordi, via dalle chiacchierate in piazza, lontani dal piccolo mondo che fino ad allora ci era sembrato piacevole.

Io e la scuola. Cosa è stato per me il periodo universitario?
A Firenze dove abitava una mia zia, con il libretto che denunciava le mie radici siciliane, ebbi modo di rendermi conto del profondo razzismo che esisteva nei riguardi dei meridionali, eravamo diversi dagli altri, non parlavamo bene, non conoscevamo i fatti politici o l’attualità del momento.
Durante il primo anno di università finii col sentirmi molto ma molto ignorante, ascoltavo le lezioni dei professori lontani anni luce dagli studenti e mi sentivo nessuno.
Ci fu un freddo cane quell’anno che vedeva il mio esordio all’università e la zia, che abitava in una caserma adibita ad abitazione con grandi stanze e solo due stufe a legna, fece di tutto per rendere piacevole il mio soggiorno a casa sua.
Io però cominciai a soffrire di nostalgia per la mia terra e per il ragazzo che mi aveva fatto battere il cuore. Capii che il nord non faceva per me e così, quando il professore di storia romana mi disse che le ragazze meridionali avevano ancora molto da imparare per diventare come tutte le altre, presi la decisione di ritornare in Sicilia.
Sentivo che non sarei potuta diventare spigliata e disinvolta come le ragazze del nord; le mie inclinazioni letterarie erano veramente ridicole al confronto degli altri studenti, avevo un certo bagaglio (si dice così?) culturale ma non bastava a fare di me una persona preparata a cavarsela in ambienti diversi da quelli in cui ero cresciuta .
Quelli erano gli anni dei fermenti universitari, delle assemblee, delle proteste, che io non capivo e per cui provavo solo indifferenza.
Ero più presa dal mio modo di essere, dai miei sentimenti, dal mio forte modo di interiorizzare ciò che leggevo, tanto che finivo con l’identificarmi con i poeti che in ogni tempo avevano cantato l’amore, quello con la A maiuscola, e non provavo interesse per ciò che mi portava a riflettere su cose diverse dal mio io più riposto.
Finita l’esperienza fiorentina, feci ritorno nella mia città natia e frequentai l’università a Palermo dove mi recavo in treno ogni volta che dovevo sostenere degli esami.
I tempi andavano cambiando, vivevamo un po’ meglio, qualche vestito in più e piccole soddisfazioni nella nostra vita di giovani di periferia.
Un pomeriggio, incontrando le mie vecchie compagne di scuola, ora colleghe universitarie, dissi loro che eravamo cresciute male senza impegni veri, senza interessi, pochi discorsi seri fra noi, solo chiacchiere stupide.
Cominciavo ad avvertire un forte desiderio di cambiamento, avrei voluto fare qualcosa per migliorare la situazione della mia città ma non avevo idea di cosa fare.
Dopo la laurea in lettere moderne, cominciai subito a cercare lavoro. L’insegnamento mi sembrò l’unica strada da percorrere.

Va bene, farò l’insegnante. Mi siederò in cattedra davanti a ragazzi, che poi sono un po’ come i miei fratelli che ho accudito da sempre, e spiegherò le lezioni.
Ma quali lezioni? In che cosa consiste il mio sapere? Per quanto cercassi nei più riposti angoli del cervello, non credevo di avere un sapere nascosto. La mia preparazione scolastica era tutta lì, conoscevo la grammatica italiana, sapevo formulare dei bei periodi scritti (a parlare me la sono sempre cavata a fatica), sapevo il latino, belle poesie a memoria (compresi interi canti della Divina Commedia che ci avevano fatto studiare all’Università), e avevo un po’ intuito il cammino dell’uomo attraverso i secoli, le scoperte, le religioni, le tradizioni popolari. Niente di più. Poteva bastare tutto questo a definirmi un’insegnante? Entro quale modello avrei potuto scivolare?
Più pensavo ai miei insegnanti però e più capivo che avrei dovuto comportarmi in modo completamente diverso. Si, ma come?
Mi rivedo giovane e sprovveduta affrontare, come supplente di pochi giorni, una classe di alunni di scuola media.
Soggezione e paura di fronte a ragazzini che chiacchierano incuranti di me e dei miei tentativi di instaurare un dialogo.
Non sapevo come si facesse ad insegnare o, per lo meno, a trasmettere delle conoscenze. La grossa preside La Marca tuonava ancora nei corridoi della nuova scuola ed io mi sentivo piccola ed inerme come gli scolari che parcheggiavano tra i banchi.
Sono impreparata a svolgere un lavoro così impegnativo, ho bisogno di conoscere strategie di lavoro, sapere cosa bisogna fare per far apprendere meglio le conoscenze agli alunni, mi piacerebbe imparare a fare capire ai ragazzi la bellezza del conoscere, continuavo a ripetermi.
Prima nomina a tempo indeterminato in un paesino della provincia di Parma, Borgo Val di Taro. Mi getto nella mischia, farò quello che posso.
Saverio, mio marito, che ha emigrato nella zona di Parma prima di me, mi spiana la strada facendomi conoscere la gente del posto e, soprattutto, altri insegnanti che possono aiutarmi ad inserirmi.
“Sei siciliana?” mi chiedono dopo avermi sentito parlare ed io odio il mio accento siculo e la mia aria così fortemente provinciale.
Vorrei essere emiliana anch’io, parlare come loro, pronunciare la C in modo dolce senza quella pesantezza che avverto ma che non so togliere dalla mia pronuncia. E poi quella brutta S che mi esce così male ed il verbo finale nelle frasi interrogative, perché continuo ad usarlo?
Cerco di accattivarmi le simpatie dei ragazzi emiliani parlando di me, della mia vita, so che gli alunni sono sempre tanto curiosi e vogliono conoscere tante cose dei loro insegnanti. Le ragazze, soprattutto, ti chiedono se hai un marito, da quanto tempo sei sposata e commentano fra loro la tua vita privata. Vogliono sapere se in Sicilia sono tutti mafiosi e se ho mai visto una lupara, mi chiedono del mare e se è vero che non ho mai visto la neve.
La neve non l’avevo mai vista e non immaginavo neppure che si potesse trascorrere l’inverno con tanto freddo e poi la primavera con piogge continue, lunghe, monotone, che mi davano l’impressione di essere sempre bagnata.

Settembre nero, lo definimmo allora. Il ministro ci costrinse a fare dei corsi abilitanti riparatori per dare una parvenza di legalità alla professione di insegnanti senza professionalità. Per la prima volta presi fra le mani qualche testo di pedagogia e psicologia e compresi che, per insegnare, occorreva anche porsi degli obiettivi a medio o lungo termine e, soprattutto, era necessario conoscere e capire i problemi dei ragazzi nel loro attuale momento di crescita.
Frequentando il corso sentii parlare in pubblico di politica, di Cuba, della Palestina e di Israele. Sentii parlare di ideologie politiche, delle teorie del comunismo, della sinistra e dei problemi della nostra società. L’ambiente siciliano in cui avevo trascorso l’infanzia e la giovinezza non mi aveva dato alcuna formazione, la famiglia e la scuola non avevano saputo darmi gli stimoli necessari, ero vissuta in un grosso pantano culturale. Ora ero libera di scegliere e di orientarmi verso l’indirizzo che più ritenevo giusto.
Cominciai a leggere libri e giornali che mi illustrassero meglio la società, ascoltavo i programmi seri che la televisione ci propinava ma non riuscii ad appassionarmi alla politica né a prendere sul serio qualche ideologia culturale.

Ci sono delle riflessioni, delle elaborazioni mentali che vengono fuori solo nelle prime ore dell’alba, quando ci troviamo tra il sonno ed il risveglio, piacevolmente intorpiditi e però pronti ad affrontare la giornata che si appresta ad arrivare. Tanta voglia di fare, sperimentare, cercare soluzioni alternative per rendere meno monotono il mio lavoro di insegnante. Aprivo gli occhi e sapevo esattamente cosa avrei dovuto fare quel giorno in classe con i miei alunni.
Ne parlavo con le occasionali compagne di viaggio. Ne parlavo con la Bianca,
(proprio così, con l’articolo davanti al nome, come si usa fare nel Nord) ne parlavo mentre macinavamo chilometri per recarci a scuola, lei, la Bianca, insegnante di matematica ed io di lettere.
Quanto mi sono stati utili i suoi consigli! Ed ora che non c’è più, a tanti anni di distanza, mi vengono in mente i suoi tentativi di provincializzarmi, di settentrionalizzarmi, ricordo le storie della gente del posto che mi raccontava con abbondanza di particolari, le sue battute spiritose e quel modo tutto suo di arrotare la erre, allungare il suono delle vocali, parlare sorridendo e sorridere parlando.
Io la ammiravo e cercavo di imitarla, anche per quanto riguardava la gestione della casa, che lei sapeva tenere sempre pulita ed in ordine, mai una cosa fuori posto e sì che andavo a trovarla a tutte le ore del giorno!
Abitavamo nello stesso condominio, io al primo piano e lei al secondo ed era un viavai continuo sia mio che suo, giù e su, “Maria Grazia, mi tieni il bambino? Mi presti una cipolla?” ed io: Bianca, come si prepara la pasta al forno? Bianca, domani mi dai un passaggio? Bianca, stasera stiamo insieme a guardare la televisione
“La mia amica siciliana!”, diceva lei, ed a me sarebbe piaciuto molto acquistare un po’ del suo “savoir fare”, parlare e muovermi come lei che si mostrava sicura di sé e capace di organizzare al meglio la sua famiglia.
Mi sentivo molto portata verso le persone sensibili che avevano problemi affettivi e che riuscivano a comunicare nei compiti scritti il loro malessere. Chissà cosa ne è stato di Maura, una ragazzina di Albareto, che sapeva raccontarmi i suoi problemi con un linguaggio semplice ed incisivo! E quel ragazzino che scriveva di avere portato le mucche al pascolo la mattina presto prima di venire a scuola! si addormentava con la testa sul banco, distrutto dalla fatica e mentre i compagni ridevano, io dicevo loro di non disturbarlo perché si vedeva che era proprio stanco!
La nostalgia per la nostra terra ebbe la meglio ancora una volta, chiedemmo il trasferimento e, sia io che Saverio, mio marito, fummo trasferiti in provincia di Trapani.
Tornammo a riappropriarci della nostra realtà, ritrovai l’ambiente a me più congeniale perché era quello che mi aveva visto crescere, ritrovai la scuola, quella della mia giovinezza, anche se adesso era tutto diverso perché io mi trovavo dall’altra parte della barricata ed ero una persona matura.
Forse il termine “maturo” non è quello giusto, non si è maturi a trenta anni, non si è ancora completamente maturi neanche a quaranta anni, forse a cinquanta o a sessanta, se tutto va bene…
Orario delle lezioni: dallo otto e trenta alle dodici e trenta con un buco a seconda ora .Ed il giorno libero? Mi piacerebbe il sabato, se possibile. “Preside, ho bisogno di un’ora di permesso per accompagnare il bambino dal dottore! “Oggi pomeriggio c’è la riunione per i libri di testo, ci sono gli scrutini, gli esami, c’è la consegna dei registri, l’incontro con i genitori, ci sono mille cose da fare, forse è meglio che rimaniamo a scuola pure di pomeriggio, organizziamo i corsi pomeridiani e facciamo fare ai ragazzi varie attività, si potrebbe fare teatro, musica, folk, organizziamo la gita, vediamo, dove si potrebbe andare quest’anno?

Io voglio essere dalla parte dei giovani. Mi inserisco nei gruppi di lavoro e li stimolo ad inventare qualcosa che entusiasmi me e loro. Forse è meglio che sia io la più entusiasta in modo da coinvolgerli nel mio gioco. Potremo inventare insieme una recita, una drammatizzazione per la festa di fine anno, scriviamo il testo insieme, aggiungiamo le battute spontanee che vengono fuori così, a caso, a seconda l’estro del momento, mettiamo insieme un bel copione e assegniamo le parti.
“La scuola deve divenire un sistema in cui vari elementi interagiscono fra di loro, ognuno con le proprie competenze e peculiarità, quindi le varie diversità di età, di cultura, di approccio, non devono rappresentare un problema, ma una opportunità di scambio e di arricchimento.” I Decreti Delegati del 1974 sono stati scritti apposta per me. Voglio fare l’insegnante che sta dalla parte dei giovani, perché in fondo mi sento giovane anch’io, mi entusiasmo facilmente e sto sempre lì a far funzionare il mio cervello per far nascere un minimo di interesse anche nei ragazzi.
La scuola media in cui mi trovo ad insegnare è una fucina di idee.
La Preside della scuola in cui mi trovo ad insegnare mostra di essere un’ottima promotrice di eventi scolastici, sempre pronta alla sperimentazione delle nuove proposte; pungola e spinge i giovani insegnanti a fare sempre di più, sempre di più, in un crescendo di iniziative che a volte finiscono con il distruggerci.
“Preside, non ce la faccio ad uscire di casa alle tre del pomeriggio! Ho i miei tempi di digestione da rispettare!”
“Preside, con la compresenza di tre insegnanti di diversa disciplina nella stessa classe, non finiamo con il togliere del tempo all’insegnamento della grammatica italiana?”
Seguendo le nuove indicazioni del ministro, i nostri alunni sono più bravi di prima o li mandiamo alle superiori da ignoranti, nel senso che sanno fare altre cose ma si trovano ad ignorare la struttura della lingua, fondamento primo del nostro essere cittadini italiani?
I dubbi sono tanti. I colleghi delle Superiori, che non hanno vissuto i nostri travagli, lamentano la scarsa preparazione degli allievi che arrivano dalla nostra super dinamica Scuola media.
Andrò a verificare. Chiedo di passare alle Superiori. Qui ci sono ancora vecchi programmi, si studia la letteratura, la storia proprio come ai miei tempi, si mettono i voti e non i giudizi a cui avevo cominciato ad abituarmi alle Medie.
“L’alunno, serio e responsabile, ha mostrato un certo interesse per la disciplina, ma non sempre si è impegnato con costanza .” Voleva dire che il ragazzo non aveva voluto proprio studiare; non si poteva dire però chiaramente che un alunno era svogliato ed allora si inventavano delle belle frasi ad effetto dove la cosa si dice e non si dice anche per accontentare i genitori che facevano parte del consiglio di classe dato che la sovranità era stata distribuita a docenti e famiglia.
Alle Superiori mi riabituo al voto. Se un alunno sa scrivere bene posso anche dare l’otto o il nove. Che soddisfazione!
Gli anni volano veloci, poi anche alle Superiori avvengono i cambiamenti che avevo sperimentato pienamente nella scuola media.
Si comincia con il cambiare il registro. Nuovi spazi, righe bianche per scrivere il giudizio sugli alunni, verbali, incontri per disciplina, parole, parole, progetti finanziati , soldi per chi dimostra di aver fatto qualcosa in più del dovuto, litigi fra colleghi sulla spartizione della torta e tanta insoddisfazione.
Cambiano gli esami di maturità. Non posso più sperare di essere chiamata a fare la commissaria d’esami in qualche città del Nord dove, tutto pagato, posso permettermi un mese di quasi vacanza.
I miei alunni, futuri Periti meccanici, si comportano proprio come me quando ero studente. Una lezioncina stiracchiata studiata solo per accontentare l’insegnante, poca voglia di impegnarsi, poca voglia di approfondire, altri interessi da coltivare!
Dal canto mio, cerco di fare del mio meglio per svolgere il programma di letteratura e di storia, i cui argomenti sono tutti scritti lì, sulla prima pagina del registro, insieme alla presentazione della classe ed agli obiettivi finali!
Non vedo via d’uscita; mi sento delusa e stritolata da un sistema che non aiuta i giovani a crescere nel migliore dei modi ma anzi li spinge a non fare, tanto al diploma finale ci arriveranno tutti, prima o poi!
Mi convinco che solo il pensionamento potrà rendermi libera.
Se la scuola mi ha imprigionato, oggi mi si presenta l’opportunità di dare un grosso contributo alla mia libertà. Posso sganciarmi da un modo di pensare che altri hanno costruito per me, posso vedere sgretolare le mie vecchie convinzioni, posso buttare giù e ricostruire, distruggere e rifare, aprire la mia mente verso nuove azzardate conoscenze e, soprattutto, posso scoprire tutte le mie più nascoste potenzialità.
Qualche alunno mi incontra e mi sorride, ricorda che è stato mio alunno nella tal classe, con quei compagni che… Si, dico, ricordo bene l’espressione del tuo viso quando mi dicevi che eri impreparato, ricordo le cose che avrei voluto farti capire e che non hai capito, ma in fondo cosa importa?
Oggi lavori, hai una tua famiglia, sei realizzato, cosa importa avere o no saputo cosa diceva Foscolo ed i suoi problemi con i sepolcri, se era giusto o non era giusto seppellire i morti in chiesa o fuori della chiesa?
Cosa importa avere capito le alleanze palesi della prima guerra mondiale se il mondo si regge e si è sempre retto su alleanze segrete, nascoste, su meccanismi così complicati e tortuosi ideati da personaggi che hanno creato la storia mettendola in piedi a loro piacimento?
Niente è mai come sembra a prima vista. Molto spesso le parole vengono usate per nascondere altro, sono dei paraventi, delle cortine fumogene, servono a dare l’ illusione che le cose si svolgono in un certo modo quando invece la realtà è ben diversa.
Ho seguito un lungo cammino durante il corso della mia vita solo per ritrovare me stessa.