giovedì 28 gennaio 2021

 


<<Le case degli anni cinquanta avevano pochi ed essenziali mobili. Nella sala si trovava uno ”sparecchia tavolo” ,  un “guarda servizio “ dove venivano  riposti piatti e bicchieri , un canterano per la biancheria  e un tavolo rotondo detto “tunnu”. Il tavolo poteva dividersi in due parti e allora veniva chiamato “mezzu tunnu”. La camera da letto, oltre al letto di legno o di metallo istoriato, aveva due comodini con annessa “rinalera” per i bisogni notturni degli abitanti, ed un cassettone con specchio e cassetti.   Secondo l’artigiano che aveva costruito i mobili e anche per il tipo di legno adoperato, si poteva capire lo stato di benessere degli abitanti. Gli artigiani infatti potevano essere “mastri di opera fina”, veri e propri artisti del legno o  intagliatori o semplici falegnami. 

Per quanto riguarda i letti, ancora erano molto diffusi, agli inizi degli anni cinquanta, i materassi di paglia e fieno o di crine.  C’erano anche i materassi di lana che le donne ogni tre o quattro anni allargavano con le mani o aiutandosi con una forchetta. 

Nelle vicinanze del centro storico erano ubicate le case dei burgisi o proprietari terrieri.   Il piano terra era quasi  sempre in terra battuta e con grosse travi di legno dette chianchi e lì si trovava  la stalla con la mangiatoia per il mulo, lo spazio per il carretto e  una fila di botti per il vino, li carratuna. Nel cortile accanto c’era il pozzo, un grosso recipiente di terracotta, lu lermi, che serviva per abbeverare il mulo e il cibo dell’animale, orzo, avena, favino, conservato in un grosso tinu di legno. Il macaseno faceva parte integrante della casa e da lì si poteva accedere alla cucina,dove si trovava anche  un piccolissimo gabinetto. 

Nel forno della cucina si faceva il pane tutte le settimane, li vasteddi, pane che veniva conservato  in uno stipo  con  vari scaffali. In una cassa abbastanza lunga si conservava la pasta che si comprava a cartate da cinque chili ed era avvolta da carta gialla pesante. In uno scolapiatti di legno stavano appesi gli attrezzi di cucina, scumabroru, cuppino, cucchiai di legno, coperchi.  

I mattoni erano stagnati con decorazioni a fiori. >>

domenica 15 novembre 2020

La monaca con la pistola

 


     LA MONACA 

 CON LA PISTOLA     



              di MARIA GRAZIA VITALE









La prima cosa che notai in quel piccolo essere che tutti nella famiglia di mio marito chiamavano “la zia monaca”, furono i suoi occhi: molto scuri, molto calmi. Capii perché si parlava tanto di lei, doveva essere una persona eccezionale.

Aveva una espressione estremamente seria, non però cupa o greve. Notai che sorrideva poco ma dimostrava di essere una persona cordiale e alla mano. 

Si rivolse a me che da poco avevo iniziato il cammino di giovane sposa:<< Mi hanno detto che sei una insegnante, brava! >>

I suoi tratti, anche se dimostravano tutta la loro età, erano abbastanza gradevoli: un viso scavato ma ben modellato, bocca piccola e quasi completamente sdentata, naso largo, zigomi alti. Non si vedeva il colore e la forma dei capelli perché erano interamente coperti da un velo da suora.

Non potei fare a meno di notare le sue mani che si muovevano a scatti, come spinte da un impulso che le spingeva a rifugiarsi nelle lunghe e capaci tasche della tonaca nera per cercare qualcosa di cui aveva bisogno.

C’era un non-so-che di terribimente deciso in lei, nella sua calma.

<< Siate sempre legati l’uno all’altra - disse a me e a mio marito - ricordate che, solo volendovi bene,  riuscirete a fare del bene anche  agli altri!>>  La zia monaca aveva  un accento strano,  mescolava   il siciliano  ad altri  tipi di dialetti, tanti quanto quelli in cui si era trovata a vivere nel corso della vita. 

La guardavo ammirata. Era lei la donna di cui parlava tanto mio suocero, era la sorella maggiore che, sin da bambina, aveva  affermato con convinzione che sarebbe diventata una suora.

<< Non è mai stata una bambina normale - dicevano i fratelli- lei giocava con le bambole vestite da suora! Aveva però anche il pensiero ai bambini, i picciriddi che vivevano in situazioni difficili e a loro dedicava tutto il suo tempo>>.

Le chiacchiere sulla zia monaca avevano stimolato molto la mia fantasia e, per questo motivo, quando mio marito, durante uno di quegli avventurosi  viaggi che ci portavano dalla Sicilia in Emilia, dove avevamo trovato il lavoro come insegnanti, mi propose di  andare a trovare la zia monaca, acconsentii con piacere.

La riconoscemmo subito! Se ne stava seduta su una vecchia sedia di legno in un angolo del cortile  malmesso  di un vecchio monastero  e guardava i bambini che giocavano a palla. 

L’aspetto mi risultava familiare e, anche se curva e magrissima, aveva l’aria di famiglia.

<< Zia, - le chiesi dopo esserci presentati e averla abbracciata con affetto - quanti anni hai?>>

<< Sono più di settanta - mi rispose - ma voglio ancora servire il Signore e fare quello che posso per aiutare i più deboli>>.

Tirò fuori allora dalla profonda tasca del vestito da suora un piccolo libro con la copertina marrone. Era sciupato e con le pagine ingiallite, era un libro sofferto e meditato. Chissà da quanto tempo!

<< Ecco - mi disse - tienilo caro come ho fatto io per tanti anni. In questo libro troverai  le preghiere che ti aiuteranno nel corso  della vita >>.

L’abbracciai commossa. Nessuno mai mi aveva donato un libro di preghiere e nessuno mi aveva mai detto che avrei avuto dei problemi da affrontare. Avevo sempre pensato alla mia vita come ad un sentiero pieno di petali di rose che si sollevavano leggermente in aria al passaggio di due cuori innamorati.

Volevo però saperne di più. Volevo conoscere lei, la donna che aveva scelto di non creare una famiglia tutta sua, ma di vivere  dedicandosi  agli altri, ai più  bisognosi, ai deboli,  a chi richiedeva aiuto.

<< Zia! - dissi allora- quando hai capito che volevi fare la suora? La tua è stata una scelta libera oppure ti sei fatta influenzare da altri?>>

<< Libera sono stata, sempre di testa mia ho fatto le cose. Mio padre, don Severino, non voleva che diventassi monaca. Io però sapevo sin da piccola quale sarebbe stato il mio futuro>>.

<<Ma è vero che portavi sempre con te una pistola?>>

Un leggero impercettibile movimento delle labbra fu la sua risposta.

La mia curiosità prese allora campo e si trasformò in una serie di domande incalzanti volte a ricostruire il passato di quella piccola donna che mi stava davanti.

Rispondendo alle mie domande, Suor Antonietta, che conservava nel cuore tutti i momenti che avevano caratterizzato la sua personale vocazione, mi raccontò il film della sua vita.






 



Era il 1912 e lei aveva solo dieci anni. Si trovava con il padre a Santa Ninfa  in un campo detto “fenestrelle”. Era questo un luogo ricco di tombe rupestri che, viste da lontano, assumevano appunto  la sembianza di tante piccole finestre.  

Un fortissimo temporale aveva imperversato per tutta la notte. Antonietta, rannicchiata nel lettino di campagna dove il materasso, riempito di crine e paglia, non la smetteva mai di crepitare e sfrigolare, aveva tenuto quella notte il lume acceso stringendo al petto il suo amato rosario. Pregava raccomandandosi alla clemenza divina, sperava che non ci sarebbero stati molti danni in campagna e nelle povere case dei contadini.  Ogni tanto perdeva il filo della preghiera a causa dei forti rumori di tuoni, poi ricominciava a pregare. 

Quando il temporale finalmente si diede una tregua, Antonietta scese dal letto e, a piedi scalzi, si diresse verso la camera dove dormiva il padre. Non aveva sentito nulla lui, aveva continuato a russare e sognare sotto la coperta di lana rossa che faceva parte del corredo nuziale.

Antonietta aprì la porta cigolante della camera dove troneggiava un letto matrimoniale di nichel lucido e brillante e cercò di vedere nell’oscurità la sagoma del padre. Fu allora che don Severino, balzato a sedere sul letto e resosi conto che nella sua stanza era entrato qualcuno, afferrò la pistola che teneva sempre pronta sul comodino, accanto alle immagini dei santi protettori. 

La teneva sempre con sé la pistola, di notte e di giorno; era la compagna preferita, la sua sicurezza personale, il passatempo più caro. 

<< Li latri, li latri ! >> gridò con la pistola puntata verso qualcuno che avanzava nella stanza e che riusciva appena a intravedere con gli occhi impastati dal sonno.

<< No, patri nun ci sunnu latri, c’è lu temporali! >>   La ragazza si avvicinò a passettini, sedette ai piedi del letto del padre e cercò di farlo tranquillizzare. Non c’erano ladri, né delinquenti in quella campagna sperduta dell’entroterra di Santa Ninfa. E poi cosa avrebbero potuto rubare? Don Severino ascoltò le parole della figlia ma non poteva finire così semplicemente la loro conversazione. <<Figghia me’, li cosi chi dici, sunnu cosi giusti, ma ci voli sempri una pistola pi garantiriti la vita!>>

Una pistola per garantire la vita. Questo era stato uno degli insegnamenti del padre e Antonietta sapeva che, armata di pistola, avrebbe difeso non soltanto se stessa ma anche  quei bambini  che un giorno  le sarebbero stati affidati.

I bambini, si! Lei sarebbe stata una suora ma anche una maestra. Una maestra suora. 

Fu nel 1932 che i sogni di Antonietta, ormai ventenne, si concretizzarono con l’arrivo di un telegramma di nomina come maestra. Decise subito di accettare. 

Si diceva nel telegramma che Antonietta avrebbe dovuto recarsi in un piccolo paese d’Abruzzo per sostituire come insegnante una vecchia suora. Quando don Severino lesse il telegramma con la nomina a maestra della figlia, ebbe un moto di stizza. <<L’Abruzzo, l’Abruzzo… dunni è stu Abbruzzu?>>

<< T’accumpagnu iu!- disse subito dopo, con un tono perentorio ma al contempo amareggiato - Vogghiu vidiri dunni va a finiri me figghia!>>

Antonietta, apparentemente tranquilla e sicura di sé, accettò di buon grado ciò che il padre le proponeva. Aveva, in verità, un po’ di paura. Il viaggio in treno e il soggiorno in quel lontano paese potevano essere pieni di insidie per una ragazza giovane come lei. 

Alla stazione di Mazara si raccolse  una piccola folla di amici e parenti venuti a salutare la giovane Antonietta.

 << Tanti auguri,  Antonì, speriamu chi ti la passi beni a stu paisi!>>

<<Certu chi si la passa bona! - replicò don Severino - idda è la maestra e tutti l’hannu a rispittari, ma sinnò…>> A questo punto della conversazione don Severino mise la mano in tasca facendo capire ai presenti che, come era fornito di un’arma lui, poteva esserlo anche la figlia. 

Antonietta invece non ci pensava proprio alle pistole.  I suoi erano sentimenti di altruismo e donazione agli altri, ai più deboli, e niente avevano a che fare con la violenza e le armi.

Il paese dove Antonietta fu   inviata come maestra aveva il nome di Ateleta e si trovava a 735 metri di altitudine.  Fondato da Gioacchino Murat nel 1811, durante il decennio francese del Regno di Napoli, il paese era l’ultimo centro della provincia dell'Aquila, al confine con la regione Molise. L'abitato ricordava molto il centro siciliano di Santa Ninfa dove Antonietta era solita soggiornare durante l’estate, soprattutto per il suo contesto naturalistico molto  suggestivo, formato da monti boscosi e dalla valle del fiume Sangro. 

Quando, alle prime luci del mattino il treno si fermò  alla stazione dell’Aquila, padre e figlia si guardarono sconsolati.  Il freddo era così penetrante ed intenso che non potevano   bastare gli indumenti che li ricoprivano.

<< E ora dove andiamo?- disse titubante Antonietta stringendo forte la mano del padre - Come possiamo raggiungere Ateleta e la scuola dove devo insegnare?>> 

Ci riuscirono finalmente e don Severino dovette rassegnarsi a lasciare la figlia in quel luogo  così freddo e inospitale.  

<<Teni figghia mia, chista ti po' serviri!>> disse don Severino consegnando la sua pistola alla figlia prima di ripartire alla volta della Sicilia.<< Nun lu diri a nuddu chi hai una pistola. Ma si ti trovi in difficoltà, pigghiala e nun ti scantari !>>

Antonietta aveva una certa dimestichezza con le armi. Le aveva sempre viste al padre, le aveva pulite, maneggiate e qualche volta aveva anche sparato. Senza mai rivolgersi a uomini o animali, però.

La giovane maestra prese l’arma che il padre le offriva e la nascose  tra le pieghe della lunga nera veste.

 Così partirà contento! pensò.

Il lavoro nella scuola del paese fu per la giovane Antonietta  abbastanza appagante. I bambini le si affezionarono subito, forse per via di quel sentimento spontaneo che porta i piccoli a seguire le persone semplici e ricche di amore.

 Per due anni Antonietta rimase nel paesino abruzzese senza mai tornare a casa. Il sogno che covava nel cuore, quello di diventare suora, continuava  però a farsi sentire. Nei suoi sogni fantastici si vedeva vestita di bianco con un grande cappello e con tanti bambini da educare e accudire.

Così quando la giovane venne a sapere che in un paese vicino abitava una monaca dell’ordine di San Vincenzo, decise di andare a trovarla. Fu quello un incontro decisivo per la sua vita. Anche lei, come la vecchia suora, sarebbe divenuta una Figlia della Carità di San Vincenzo da Paola. Conosceva bene quali  erano i compiti della Compagnia della Carità: combattere le più svariate forme di povertà e dare alle donne un ruolo sociale attivo.  Era per lei una scelta veramente importante e significativa.

Ottenuti i voti a Parigi, Antonietta riuscì  finalmente a coronare il suo sogno da bambina. Avrebbe avuto il suo vestito da monaca. Lungo e bianco, con un gran  cappello che avrebbe  incorniciato  il suo bel  volto ancora ingenuo e assolutamente privo di malizia.

Da quanto tempo non scriveva a casa? Antonietta , come un uccello migratore, aveva  lasciato in Sicilia i suoi affetti più cari ed era partita per andare a servire i piccoli, i più deboli,  i  più bisognosi del suo aiuto. I fogli di carta da lettere e la penna stilografica che il padre le aveva    lasciato, giacevano   abbandonati in un angolo dello scrittoio insieme alle lettere da Mazara che arrivavano puntualmente e a cui Antonietta rispondeva di rado. I bambini delle sue classi scolastiche dipendevano  da lei e a loro lei si sentiva disposta a dare il suo affetto incondizionato.

La pistola la portava sempre addosso, non perché la riteneva   necessaria ma per un pudico desiderio di non fare notare agli altri, soprattutto ai padroni di casa, che lei possedeva una pistola.


 Un giorno, (era  l’estate del 1934) Antonietta decise di portare i bambini in campagna per farli giocare all’aria aperta e, nello stesso tempo, insegnare loro alcune elementari regole di coltivazione delle piante.

Il pane fresco era stato ben riposto nelle ceste di vimini, un po’ di formaggio e delle olive sarebbero stati un ottimo genuino accompagnamento per quelle bocche sempre affamate. 

Arrivati in un’ombrosa radura, Antonietta fece cenno ai ragazzini di fermarsi e diede loro il permesso di giocare. Seduta a terra su una coperta, li guardava con il compiacimento più di madre amorevole che di maestra.

Le grida gioiose dei bambini allietavano il suo spirito. Antonietta sorrideva soddisfatta compiacendosi per la sua scelta di vita. 

Ad un tratto, al di là degli alberi, avvertì uno strano rumore.

 “Mio Dio, sarà forse un animale che arriva dal bosco?”

Effettivamente era un animale che veniva  dal bosco. Un grosso, brutto, mastodontico orso.

Suor Antonietta chiamò i bambini ad uno ad uno e se li tenne  accanto aggrappati alla veste. 

Toccò nella tasca la sua pistola. 

“Se si avvicina, sparo!” pensò. Avvertiva dentro di sé un gran  coraggio e il semplice tocco della pistola la rassicurava.

L’orso si avvicinò, i bambini spaventati si misero a gridare. Le ceste di pane rotolarono nel campo.

C’era però una pistola pronta a difendere tutti. 

Antonietta non voleva sparare; l’orso è pur sempre un essere vivente, una creatura di Dio. 

Ad un certo punto però, sembrò quasi che il vecchio orso riuscisse a capire la situazione di paura e imbarazzo che con la sua presenza era  riuscito a creare , si girò e lentamente si avviò fra gli alberi del bosco.

Antonietta rimise la pistola in una delle sue profonde tasche, conservò  anche il rosario che aveva tenuto a portata di mano   e guardò i bambini sorridendo. 

<<Tutto passato, bambini. Raccogliete il pane e ritornate a giocare!>>

<< Sorella, sorella, cosa è successo ieri? >> il giorno dopo, chiese spaventata   la mamma di un bambino. 

Tranquillamente, suor Antonietta rispose: 

<< Niente, niente, non c’è pericolo per i bambini. Io porto sempre  per sicurezza una  pistola!>>.  Sorridendo suor Antonietta mostrò la sua arma, togliendola  dalla profonda tasca della veste da suora.


lunedì 7 gennaio 2019

Un Mazarese negli Emirati Arabi


                                  Un  Mazarese negli Emirati Arabi


Tante volte mi sono chiesta: dove e come vivono, che lavoro svolgono quei giovani super laureati, intelligenti, capaci di forte impegno e motivati  che tornano nella loro città in occasione delle feste di Natale per poi sparire nell’indifferenza generale?
Ho voluto incontrare uno di loro e mi sono resa conto che veramente Mazara potrebbe avere una svolta positiva e moderna  se si desse la possibilità  ai giovani dalla mentalità aperta, più della nostra certamente, di prendere in mano le sorti del nostro Paese.
Antonino Caronia, 45 anni, è un ingegnere nucleare che ha al suo attivo diverse esperienze di lavoro in Paesi europei ed extra europei. Dopo la laurea e il dottorato a Palermo, ha lavorato per sei anni nel campo della ricerca e per altri dieci si è dedicato alla progettazione di impianti energetici. E’stato anche dipendente dell’ENEL nel settore ingegneria e costruzioni. Oggi ha l’incarico di direttore e coordinatore della progettazione dell’impianto “Barakah” negli Emirati Arabi. Tale impianto, di nuova generazione, comprende quattro impianti nucleari e un impianto fotovoltaico.
-Antonino, perché sei andato a lavorare proprio negli Emirati Arabi?
-Non sono stato io a fare questo tipo di scelta. Semplicemente, mi si è presentata un’ occasione che ho scelto con piena consapevolezza. Nel corso degli anni successivi alla laurea, ho sempre svolto dei lavori riguardanti la progettazione di grossi impianti. L’esperienza acquisita e le conoscenze anche in campo internazionale mi hanno permesso d’incontrare le grandi firme europee che si occupano di progettazione di grandi strutture.
- Non potevi rimanere in Italia o svolgere lo stesso lavoro qui nella nostra Sicilia abbandonata a se stessa?
-Il problema è che qui da noi non si trova il tipo di lavoro che ho scelto di fare. Infatti non ci sono programmazioni a lungo periodo.
- Vuoi dire che noi non investiamo per il futuro?


 - E’proprio così. In tutti i Paesi in cui ho vissuto e lavorato (Slovacchia,Polonia, Francia, Emirati Arabi…)ho sempre notato che le grandi strutture e i grandi cantieri vengono aperti perché il Paese pensa a come soddisferà i suoi bisogni nell’arco di almeno dieci anni o, per lo meno, in un periodo abbastanza lungo.
- Come ti trovi ora in questa realtà così lontana dalla nostra?
- Sto cercando di adattarmi al posto in cui mi trovo. Vivo ad Abu Dhabi, una città molto moderna e cosmopolita. Vi convivono e lavorano ben novanta diverse nazionalità. Faccio parte delle trentacinque mila persone che abitano in un quartiere della città creato appositamente per coloro che partecipano al progetto. Ben quindicimila persone lavorano  per rispondere alle necessità di questa appendice cittadina.
- Non conosco bene la storia di questi Emirati, puoi riassumerla in modo che si capisca?
-Certamente. Per comprendere bene lo stato di ricchezza degli Emirati e la gestione di essa, dobbiamo fare un passo indietro di circa cinquanta anni. Allora l’area era un protettorato inglese (lo è stato per circa 200  anni) fino a quando, negli anni ’70, il governo inglese non concesse l’indipendenza sotto la guida degli emiri. Sette di loro chiesero al governo inglese di riconoscere lo stato unitario e crearono una Confederazione di monarchie ereditarie, in ognuna delle quali l’emiro diveniva sovrano assoluto del suo Stato. La Confederazione chiese al governo inglese di essere assistita nella costruzione di un sistema sociale e giuridico utilizzando le risorse del petrolio. In 50 anni, gli immensi introiti del petrolio permisero investimenti massicci permettendo di creare dal nulla due metropoli ultramoderne,  Abu Dhabi e Dubai, un sistema sanitario di tipo europeo e un sistema d’istruzione basato su forti scambi internazionali. Tutti i figli dell’elite araba completano infatti gli studi nelle Università occidentali.
- Un discorso che fila benissimo. Ma cosa hai trovato di negativo in questa terra che sembra l’isola delle meraviglie?
-Ho notato che il Paese è pieno di contraddizioni. Deve ancora crescere e maturare il senso di giustizia sociale, non si può parlare di conquista giuridica o di legge che  vale ugualmente per tutti.



 Quello che prevale è il codice d’ispirazione coranica che permette all’emiro di scegliere il modo di vivere secondo la sua volontà. Anche se gli abitanti godono di un congruo  compenso per diritto di nascita, le differenze fra le varie fasce della popolazione risultano molto alte e distanti fra loro.
-Parliamo un po' delle città. Come si presentano?
-Ho visto quartieri cittadini quasi simili a quelli delle nostre città siciliane, ad eccezione dei centri delle due grandi metropoli, supermoderne, con i grattacieli più alti del mondo. A Dubai si può ammirare la metropolitana più moderna dei nostri tempi, completamente automatizzata. Il più grande investimento visibile al visitatore è però l’immenso utilizzo delle tecnologie digitali. Faccio un esempio: con una app nel telefonino a Dubai si può chiamare un taxi, prenotare una visita medica, misurare la pressione e inviare i dati al dottore di turno.
- Cosa pensano di fare gli emiri  quando sarà finita la pacchia del petrolio?
-Attualmente gli Emirati si stanno candidando per divenire una grande meta turistica sfruttando il clima che permette loro una lunga estate di nove mesi l’anno. Pensano anche di poter divenire un grande polo commerciale internazionale.
-Quando scadrà il tuo contratto di lavoro cosa pensi di fare?
-Il mio contratto è legato alla costruzione degli impianti che attualmente sto seguendo, poi valuterò nuove occasioni e proposte nell’ambito europeo.
-Grazie delle tue preziose informazioni e auguri per il tuo futuro. Sempre più in alto!
Maria Grazia Vitale

giovedì 20 dicembre 2018





                                                      LA GIOSTRA

Barbara prese dalla borsetta lo specchietto e guardò con una punta di rabbia i suoi capelli . No, non erano quelli che avrebbe voluto.  Quella stupida parrucchiera! Non aveva capito bene le sue richieste e aveva fatto male il taglio.
Si, va bene,  le ciocche rossicce le scendevano armoniosamente  da una parte del viso  ma la rasatura della testa che lei aveva  voluto dall'altro lato le sembrava poco uniforme e come lasciata a metà. Forse era stata la mamma a chiedere alla sua parrucchiera di non eccedere con il taglio. Pazienza !
Barbara diede una rapida scorsa al trucco, mise un altro filo di rossetto e tornò a guardarsi attorno.
Tutti i ragazzi sembravano presi da quella stupida giostra. Montata nell'atrio interno dell'albergo “Il Mahara”, dove i maturandi dell'Istituto Tecnico Commerciale  tenevano la loro festa, sembrava l'attrazione del momento.
Dieci astronavi pronte al lancio giravano senza sosta per la gioia dei ragazzi che, prendendo  posto all'interno, sembravano  convinti di andare veramente nello spazio.
E invece  rimanevano  lì, nell'atrio dell'hotel; salivano e scendevano i gradini delle  pseudo astronavi  e le loro voci finivano con il  confondersi  con il rumore delle apparecchiature, pronte per la   partenza o  per l' arrivo.
Barbara non riusciva a guardare la giostra. Avvertiva  una strana   sensazione di disagio, come di un qualcosa che le bloccava  lo stomaco  spingendola  a guardare da un'altra parte.
<< Ora saliamo anche noi! >> fece Marco toccandole il braccio.
<< Si, va bene!>> rispose poco convinta la ragazza.
Poi  si specchiò ancora una volta, osservò i tratti del suo viso leggermente tirati a causa della sua  avversione verso la giostra , cosa che non riusciva proprio a spiegarsi ,  rimise in borsetta  la trousse   dei   trucchi e  controllò  i messaggi  al cellulare.
L'ultimo  messaggio era di sua madre. Le raccomandava di non fare tardi e di stare  sempre vigile e attenta.  Come si preoccupava  la sua cara mamma! Sempre lì a controllarla , sospettosa   di tutto e di tutti.




A proposito della mamma e della giostra! C'era  qualcosa che le legava, qualcosa che  a Barbara  sfuggiva  e  che non riusciva ancora a  percepire.  Guardò di sfuggita le astronavi  che continuavano  a girare e,  all'improvviso , un lampo di ricordo fece capolino nei suoi pensieri.
Era piccola, poteva avere cinque o sei anni e si trovava in un posto vicino al mare.  Il lungomare della città, sì, il posto era proprio quello.

Tutt' a un tratto, il ricordo divenne  nitido; un fotogramma  si staccò  dal resto della   pellicola  della sua vita e prese forma animandosi. 
Si rivide bambina in mezzo a una gran folla. La mamma era accanto a lei, le dava la mano mentre  chiacchierava animatamente con un'amica.
Era  un giorno di festa ed era  estate, perché   indossava  un vestitino rosa molto carino  regalatole dalla   nonna.
Aveva insistito tanto con la mamma per salire sulla giostra con la sua amichetta.  Su una macchinetta  rossa  fingevano di guidare e   ridevano contente.
Le mamme guardavano e salutavano le due bambine ad ogni giro della giostra.  Ma... Cosa era successo poi?  Il ricordo preciso degli avvenimenti  balzò fuori dalla nebbia e divenne preciso e reale .
Scendendo dalla macchinetta, Barbara e la sua amichetta non avevano  trovato le mamme ad accoglierle.  Doveva essere stata  questione di pochi  minuti, rifletteva ora la ragazza,  ma l'angoscia provata in quei momenti  era stata viva e reale.
Le mamme erano state  inghiottite dalla folla  lasciando le due  bambine piangenti sulla piattaforma della giostra.
<< Ma che fai, non vieni su ? >>  Marco la guardava  stupito. Gli sembrava strano che Barbara, una ragazza sempre pronta a mettersi in gioco e divertirsi, esitasse a  salire sulle astronavi.
<< Aspettami Marco, salgo con te! >>
La semplice rievocazione di quel lontano episodio della sua infanzia aveva fugato ogni tipo di esitazione e di paura.  In fondo, non c'era stato  nessun abbandono e le cose si erano messe subito a posto.  

domenica 21 ottobre 2018

Pettegolezzi

Di quello che era successo alla figlia della levatrice, Angiuluzza, ne parlarono e ne sparlarono a lungo a Mazara. Sembrava che la storia non avesse mai fine. Più se ne parlava e più particolari si aggiungevano al nucleo centrale del racconto. Anche Franca la raccontò al marito in una lettera e Carlo la riferì ai compagni coloniali perchè si trattava di un pettegolezzo piccante, di quelli che si raccontano la sera quando si sta attorno al fuoco e si chiacchiera del proprio paese e delle cose che si sono sentite dire. I fatti erano questi. Teresa, donna di servizio della levatrice, un giorno, come per caso, aveva invitato a casa sua Angiuluzza, figlia della levatrice. Secondo il racconto fatto per lettera da Franca al marito, c'era stato un inganno. Teresa, che aveva fatto da complice e preparato il tranello per la giovane Angiuluzza, aveva fatto nascondere nella sua camera da letto un maresciallo, un tipo che da tempo era invaghito della ragazza. Così, dopo aver fatto entrare la signorina in camera e averla fatto sedere sul letto matrimoniale, la donna era andata via chiudendosi dietro la porta. Il maresciallo, uscito fuori dal nascondiglio dentro l'armadio, aveva manifestato il proprio amore alla picciotta. Cosa successe veramente in quella stanza dove il maresciallo e la ragazza se ne rimasero per più di tre ore? I due diedero una spiegazione diversa al fatto e fu proprio questo che fece parlare tanto i Mazaresi. Secondo il racconto della ragazza, dopo aver gridato senza essere ascoltata, era stata zittita con un fazzoletto in bocca. Poi era svenuta e non sapeva cosa fosse successo. Secondo il maresciallo invece, c'era stata già da prima una certa intesa fra i due e addirittura lui sosteneva che la giovane non era vergine. Aveva avuto anche il coraggio di dire che qualche volta l'aveva incontrata in locali equivoci. Insomma, per tanto tempo si cercò di capire da che parte stava la verità e tutta la città si trovò a parteggiare per l'uno o per l'altra. Momento altamente drammatico fu quando Angiuluzza mise in giro la voce che avrebbe sparato al maresciallo il quale, dal canto suo, correva il rischio di essere degradato e andare in carcere. Lutto ci fu in casa della levatrice e si sperò tanto in un matrimonio riparatore per fare riprendere alla ragazza la sua onestà. A lu muru vasciu si cci appoianu tutti! E meno male che c'era l'America! Andò a finire che alla ragazza fu fatto un biglietto per l'America, solo andata senza ritorno, dove l'accolsero dei parenti e non si seppe più niente. " Se la fece franca grazie alla divcisa !- commentava Paolino a distanza di anni, raccontando ancora l'episodio- volevo vedere se si fosse trattato di una persona normale come me, se il maresciallo se la passava liscia!"

sabato 30 aprile 2016

L'isola

L'ISOLA Non riesco proprio a capire come mai mi trovo qui, in un posto sconosciuto, lontano da casa mia. Cosa ci faccio in quest'isola disabitata in mezzo all'oceano ? Mi guardo attorno alla ricerca di qualcosa a cui aggrapparmi, una piccola cosa che mi permetta di uscire dallo stato di non-ricordo in cui forzatamente mi trovo e che mi dia qualche speranza. Forse, di tutto ciò che avevo prima, mi è rimasta una sola cosa: la mia intelligenza. Mi guardo le mani, le muovo per sgranchirle un po' e avverto una luce dorata che, partendo dalle punte delle dita, volteggia leggiadramente nell'aria fino a disperdersi sulla superficie del mare. Mi perdo dietro quest'immagine fantastica. Forse, rifletto, mi trovo in quello che comunemente viene definito aldilà e questa è l'isola dell'attesa. E' strano, non avverto completamente gli stimoli della fame o della sete, potrei starmene così per sempre, sostenuta solo da un leggero respiro . Mi distendo comodamente sulla spiaggia e attendo. Di fronte a me c'è il mare . Le onde s'infrangono leggere e spumeggianti sulla riva e si portano dietro tutta la forza che le ha spinte a muoversi da un punto imprecisato dell'oceano. L'ombra proiettata da maestosi alberi tropicali sembra proteggermi dalle insidie che potrebbero nascondersi nell'interno dell'isola. Mi giro a guardare . C'è qualcosa sotto l'albero. Strisciando sulla sabbia, per non faticare ad alzarmi, arrivo a toccare una piccola cassa di legno. Sembra la cassa del tesoro di antichi pirati . E' strano, però! Ci sono intarsiate le mie iniziali: M.G.V. Si apre facilmente, non c'è neanche un lucchetto. Dentro, solo poche cose: una penna, un foglio di carta, una bottiglia. Ecco cosa potrei fare: scrivere un messaggio e inviarlo nella bottiglia. E se, invece, Qualcuno dall'alto ha stabilito che dovrò rimanere per sempre nell'isola? Mi viene in mente un programma televisivo di qualche tempo fa: L'Isola dei famosi. In un'isola, apparentemente disabitata, un gruppo di personaggi famosi cercava di sopravvivere alla meglio. Le telecamere registravano tutti i loro movimenti. Qui però non c'è alcuna telecamera, sono completamente sola. Vediamo un po' se mi riesce di scrivere. Si, ce la faccio. Manderò un messaggio in bottiglia. A chi? Metto in moto la mia intelligenza o, per lo meno, quello che è rimasto della me di prima. La bottiglia con il mio messaggio solcherà le onde e raggiungerà la persona a cui vorrò inviarla. Prendo in mano la penna, sistemo bene il foglio di carta sulle gambe e incomincio a scrivere. Cara figlia mai nata, ho scelto te come destinataria del mio messaggio, te che non sei riuscita a vedere la luce dopo i nove mesi di attesa dentro di me. La tua condizione di non nascita somiglia a questa mia condizione di non morte. Se ci sei, se ti trovi da qualche parte in questa infinita creazione fantastica, sappi che sulla terra, il luogo in cui non sei riuscita a vedere la luce, non si sta poi tanto male. Vi si trascorre un arco di tempo più o meno lungo, da bambini ad adulti, e s'invecchia facendo esperienza di una vasta gamma di sensazioni e sentimenti. La chiamiamo vita, cara Manuela, quella che tu non hai potuto sperimentare. Chissà se un giorno ti sarà concesso di viverla! Se ti succederà, cara la mia bambina, ricordati di venirmi a trovare nella città siciliana dove ho vissuto io, la tua madre mancata. Cercami nelle strade, nelle case , nel lungomare e respira la stessa aria che ho respirato per più di sessanta anni. Cerca la mia anima e mi troverai giovane e felice di vivere come lo ero quando attendevo la tua venuta. Affido il messaggio in questa bottiglia e attendo una risposta.

I segreti del materasso rosa

I segreti del materasso rosa Ero una bambina curiosa e assetata di esperienze. Capivo che il mondo degli adulti era affascinante e complesso e mi piaceva osservarlo mentre con la fantasia amavo dare vita alle cose e costruire storie, nella convinzione che oggetti e persone avessero una loro vita nascosta tutta da scoprire. Fu così che, per la mia insaziabile curiosità, riuscii a scoprire da bambina il grande segreto che aveva segnato la vita della cara zia Nicoletta, sorella della nonna. Pochi conoscevano la verità, gli adulti ai quali chiedevo qualcosa mi rispondevano in modo vago, la stessa zia che mi voleva molto bene accennava qualche mezza frase e poi taceva. Zia Nicoletta aveva avuto due mariti, il primo era morto d’infarto in giovane età, il secondo era morto di vecchiaia. Anna, la figlia, era cresciuta con la madre e il secondo marito, ma da chi era stata generata veramente ? Sentivo che doveva esserci un segreto nascosto perché i cognomi dei componenti la famiglia erano tutti diversi fra loro, c’era qualcosa che non andava, ma come scoprire la verità? Quando morì il secondo marito della zia, la mamma mi disse che non si poteva lasciare dormire da sola la povera zia Nicoletta e che sarebbe stato mio compito farle compagnia. Accettai con entusiasmo, pensando che mi era offerta l’occasione di carpire dei segreti e conoscere meglio la storia familiare, ammantata di mistero, della zia. Così, a dieci anni, ogni pomeriggio salutavo la mamma e i miei chiassosi fratellini ed entravo in un’altra orbita familiare, quella della zia. Tutto era per me affascinante e misterioso. Mi attraeva soprattutto il frusciante lettone matrimoniale, in cui dormivo in compagnia della cara vecchietta. Ricordo ancora la nera testata in ferro battuto decorata da conchiglie colorate, i quattro grossi sostegni di ferro detti “trispi”su cui poggiavano le tavole di legno ben allineate ed i due materassi di lana di colore rosa. Io sprofondavo nel mio soffice materasso rosa e mi lasciavo voluttuosamente avvolgere come da un caldo abbraccio. Avvertivo il forte profumo di pecora, di campi, di spighe di grano, profumo di lenzuola lavate a fatica nella grossa pila di pietra che troneggiava giù nell’entrata, proprio sotto la scala e che era utilizzata dagli abitanti della casa. Profumo di” liscivia”, detersivo che costava poche lire venduto in un sacchetto bianco di carta trasparente. Profumo di saponetta Palmolive usata dalla zia, profumo di carbonella che serviva a riscaldare il letto, quando nelle sere d’inverno non avevamo il coraggio di infilarci sotto le fredde coperte ed aspettavamo che il grosso recipiente di rame detto” braciera “ con la carbonella accesa assolvesse il suo compito. Il materasso era un mio grande e robusto amico pronto ad accogliermi con il suo tepore. Dalla nicchia che pian piano costruivo con piccoli e accorti movimenti del corpo, con la testa sprofondata nel cuscino di soffice lana, osservavo la zia che si svestiva e si rivestiva per la notte. Un rito segreto, semplici gesti di donna che non ha fretta, paga di quello che ha, contenta di avere trascorso una giornata tranquilla, senza stress, senza fatica. Sbottonava ad uno ad uno i bottoni del suo vestito nero e lentamente lo tirava su , attenta a non far sciogliere prima del tempo la sua crocchia di capelli tenuta su da forcine di tartaruga. Guardavo con gli occhi semichiusi i suoi movimenti, la vedevo rivestirsi con una camicia da notte di grossa flanella, una sciarpa di lana, calze da notte e in testa una cuffia bianca che le dava un aspetto da monaca. Poi sprofondava anche lei nel materasso rosa. Udivo il suo dimenarsi per conquistare la forma che più le si confaceva, il suo tirarsi dietro i lembi della pesante camicia poi un clic ed era buio. La zia si muoveva ancora un pò, indugiava nell’attesa, dava modo di abituarmi al buio profondo e ai pochi rumori che venivano dalla strada. Qualche passante che camminava lesto lasciava l’eco dei suoi tacchi di cuoio insieme ai colpi di tosse e agli schiarimenti di voce, i gatti si rincorrevano, i cani mandavano suoni cupi e lontani, il mistero della notte prevaleva su ogni cosa. Non era ancora l’ora di dormire. Accoccolata nel soffice abbraccio del materasso rosa, aspettavo con impazienza che la zia mi parlasse della sua vita. Ma lei era molto reticente. Mi diceva di pregare per le anime dei defunti, anche per quelli che si erano comportati male durante la loro vita, poi la sua voce a poco a poco perdeva tono, diventava un leggero bisbiglio e, all’ultimo amen, ero pronta ad addormentarmi serenamente nel piccolo abitacolo del materasso rosa. Un giorno, rifacendo il letto insieme alla zia, mi accorsi che, ad un certo punto del materasso, in un angolo laterale, si notava uno strano rigonfiamento, come se ci fossero delle carte fruscianti nascoste all’interno. Guardai bene e scoprii una tasca interna di forma quadrangolare, dello stesso colore della stoffa del materasso, una tasca segreta chiusa da piccoli bottoni automatici. Fui presa da morbosa curiosità. Volevo scoprire i segreti del materasso rosa, sicura che avrei potuto ricostruire la storia giovanile della zia; dovevo, con un pretesto, rimanere in casa da sola. Un giorno, era il periodo pasquale e in chiesa erano arrivati dei predicatori per celebrare la quaresima, dissi che avevo molti compiti da fare e non avrei potuto accompagnare in chiesa la zia, promisi che non avrei aperto la porta a nessuno e così fui libera di dedicarmi alla misteriosa ricerca. Ricordo perfettamente come mi batteva forte il cuore quando sollevai coperte e lenzuola per arrivare alla tasca segreta del materasso rosa. Aprii i bottoncini e infilai la mano nella tasca. Ne tirai fuori carte ingiallite, vecchie buste profumate, cartoline, foto, documenti, certificati medici. Le lettere, tutte profumate e scritte da mano femminili, erano indirizzate al primo marito della zia, un signore dai baffi arricciati e dallo sguardo malizioso di cui trovai una vecchia ed ingiallita foto . Erano lettere d’amore, parlavano di baci ardenti e d’ incontri di piacere. Non capivo esattamente tutto ma ebbi la conferma dei tradimenti dello zio Calogero e della mancanza di rispetto nei riguardi della moglie, di cui mi parlava spesso la zia. Poi lessi di un bambino che doveva nascere da lì a poco. La donna che aveva scritto la lettera voleva sapere come doveva comportarsi nel momento della nascita e se era pronta la somma di denaro. In un’altra lettera la stessa donna diceva che la bambina, la piccola Anna, era già nata . Poi, in un bigliettino, era fissato un giorno per la consegna della piccola Anna, febbraio 1915; si diceva che “la picciridda” sarebbe stata portata a Mazara da una donna di fiducia. Trovai anche il certificato di battesimo della piccola Anna, che aveva un cognome leggermente diverso da quello di Calogero, (c’era una D al posto di due R)mentre la madre risultava ignota. Madrina della piccola era stata la zia Nicoletta. Ecco scoperto il segreto della zia! La figlia non era sua, ma era stata acquistata dietro compenso dal suo primo marito, il quale però non aveva voluto dare il suo cognome per intero ma, chissà per quale motivo, aveva voluto modificarlo. La madre della piccola era anonima. Tra le carte trovai anche il certificato di morte di Calogero ed infine un nuovo certificato di matrimonio. In un certificato medico si attestava la presenza di una malattia infettiva trasmessa in seguito a rapporti sessuali, malattia molto grave che necessitava di un urgente intervento. Era troppo per le mie capacità di analisi e ragionamento! Mi affrettai a mettere tutto a posto ed a chiudere la tasca segreta nascosta nel materasso rosa. La sera, quando andammo a dormire, guardai la zia con altri occhi. Il suo segreto la faceva diventare tenera e vulnerabile, piccola creatura che aveva lottato con donne fatali e mostruose e con mali incurabili e subdoli. “Zia,- le dissi quella sera- vuoi bene alla zia Anna?” “Certo! - mi rispose - è mia figlia!”